venerdì 31 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #8 di Paolo Marcotti

#8
Jennifer sale sul treno tutte le sere, alla stazione di P. Nei giorni in cui torno a casa tardi è una presenza fissa e puntuale. Non rassicurante, anzi, vagamente sinistra.
È impossibile non notarla. La sua vistosissima chioma vigorosa e indisciplinata la precede, la distingue, la segnala, e l’effetto è perfino più efficace di quello delle aureole luminose sulle statue di Padre Pio o della Madonna. Jennifer è magrolina e non ha il fisico per portare a spasso un simile rigoglìo della natura, nemmeno per dissimularlo un po’, ma non è solo una questione di esilità. La chioma la domina, la schiaccia, prende il sopravvento e il resto sono briciole sul marciapiede del binario. È sul punto di soccombere ma non si dà per vinta: a volte arriva coi capelli lisciati, da una forza evidentemente non terrena. Lo sforzo però è vano, e l’effetto grottesco, quasi patetico.
Ma Jennifer non conosce arrendevolezze e deve mostrarsi, e dimostrarsi, di avere altre frecce capaci di andare a segno, quante ne vuole. Spesso tenta la metamorfosi, una surreale trasformazione in una sorta di essere a metà tra una cerbiatta e Heidi con un trucco molto, troppo pesante. Ma non è una festa in maschera e l’accoglienza del popolo pendolare del binario 2 è antartica.
L’arma migliore di Jennifer però è il guardaroba. Soluzioni tessili inedite, abbinamenti arditi, abitini così originali da far venire l’idea che sia lei stessa a pensarli e realizzarli. Spesso sono sorprendentemente corti e li indossa anche se fa freddo. Lasciano in mostra due gambe ancora da bambina e chi guarda lo fa con curiosità perplessa e asessuata.
Ma non importa, a Jennifer l’attenzione maschile non interessa. Sta in disparte con fare pudico e privatissimo, non propone né ispira desiderio. Non è lì per quello. Si direbbe che stia piuttosto perseguendo un suo obiettivo, una sua coerenza.
È sempre tremendamente occupata con il suo smart phone ultimo modello. Parla e chatta con le amiche con un po’ di supponenza, e il suo divertimento è misurato e annoiato. Ascolta in cuffia con esagerato entusiasmo musica finto-indipendente che le ha passato un amico che lavora in una radio locale. Un solidissimo muro marca il confine tra lei e il mondo degli altri pendolari, che agli occhi del suo granitico isolamento non hanno alcun valore e nessuna possibilità di trasmetterle quel calore che lei non cerca più, certo non adesso, certo non qui.
Jennifer fa l’estetista in una cittadina di provincia incomparabilmente stretta rispetto alle sue robuste ambizioni maturate sulle riviste di moda, per la sua educazione militarmente impostata sul rigore di Vogue. Jennifer sogna ad occhi non sempre aperti Milano, le sfilate, gli aperitivi, i locali con certa gente che ha in mente lei. Lì sì che sarebbe finalmente dove merita, come merita. Con le amiche ne parla spesso, quasi sicura di non essere compresa, e scarta, senza capacitarsi del loro osare, intimiditi pretendenti di paese, sempre meno numerosi.
Jennifer un giorno non molto lontano si licenzierà con impaziente e inadeguato orgoglio e andrà a Milano, a far capire e vedere a tutti chi è e quel che sa, a bussare a certe porte, non tutte, non è una disperata qualsiasi, solo quelle giuste. Questo pensiero è per lei pane quotidiano, armonia perfetta, fede incrollabile, fiero appetito, gustosa lussuria. Non le serve altro e le banalità di questa vita nel frattempo sono solo un incidente di percorso, una fastidiosa scocciatura.
Ma anche Milano attende Jennifer con gusto. L’ha sentita annunciarsi col suo profumo rivelazione dell’ultima stagione. La divorerà in un solo boccone e la digerirà con un piccolo singhiozzo. Per un bel rutto, ci vuole ben altro.

sabato 25 maggio 2013

Blog Tour: Giulia Beyman!




Giulia Beyman: una scrittrice con il Mistery nel sangue.
Conosciamola insieme!


Ciao Giulia, parlami di te, scegli da dove iniziare...è questo l'interessante!


Beh... allora ne approfitto per togliermi una curiosità, cara Manuela. Perché mi chiedevo se anche il tuo Signor Mocha ti desse gli stessi problemi che mi sta dando la mia Nora. Anche lui ti segue mentre vai a fare la spesa, prendi i bambini a scuola, paghi le bollette, prepari la cena, e persino a fine giornata, quando sei stravolta e non vuoi che dormire?... Anche tu ti ritrovi a parlare con lui e a doverti giustificare perché non ti stai dando abbastanza da fare con la nuova storia che lo coinvolge? Perché mi sta venendo il dubbio (o la speranza) che questa 'invasione di campo' possa essere un problema di tutti i protagonisti seriali. Entrano nelle nostre vite e finiscono (positivamente) per stravolgerle...

Cara Giulia, Mocha mi tormenta!Flemmatico, ansioso, riflessivo ha sempre delle richieste...ieri, per esempio, mi ha chiesto un cappello!

Cosa significa per te scrivere noir, giallo, thriller (scegli quello che più ti rappresenta)?
Per i miei libri userei il termine 'Mystery'. Nelle mie storie c'è un mistero da scoprire. Mi interessa che ci sia tensione e che il lettore si chieda come andrà a finire l'avventura dei miei protagonisti. Ma ancora di più dell'intreccio mi intriga seguire gli effetti di questa'caduta negli inferi' dei miei protagonisti. Mi piace coglierli in una situazione di estrema difficoltà, in un momento in cui le loro certezze sembrano volatilizzate... quel tipo di momenti fondamentali per la crescita e per il cambiamento.
E se al mistero riesco ad aggiungere anche un pizzico di 'rosa', non mi dispiace affatto.


Quello che invece scrivi tu, cara Manuela, se non sbaglio, è il classico 'Whodunit'... Anche tu sei un'appassionata di gialli...

I tuoi personaggi devono temerti! Nasconditi NORA!!! Non conoscevo questo tuo lato sadico...heheheh... Devo confessare, però, che anche i miei "attori" non se la passano bene: dici che è un vizio degli scrittori? Odiamo, amiamo, facciamo come gli Dei?

I miei scritti sono gialli d'atmosfera, intrecci atipici dove le emozioni ed i pensieri dei protagonisti sono al centro del racconto, lo strutturano in ogni parte. Polizia, indagine tradizionale, rilevamenti scientifici...sono sullo sfondo, sfumati...

mercoledì 22 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #7 di Paolo Marcotti - Dedicato a Carlo Monni -


#7
(Dedicato a Carlo Monni, e a tutti i maestri che lasciano un vuoto che non sappiamo riempire, perché non abbiamo imparato abbastanza da loro)
Arrivo in stazione in autobus dopo un cambiamento di programma e oltrepasso sul marciapiede tutti i vagoni già affollati per salire direttamente sul primo che offre qualche spiraglio di comodità. Lui è già lì, seduto compostissimo come un bambino emozionato e ben educato in gita, catechizzato dalla mamma e dalla maestra con qualche decina di superflui “fai il bravo!”. Ma, come per ogni bambino in gita che si rispetti, la compostezza lascia piccoli varchi che tradiscono un frenetico tumulto. L'apparenza da scolaretto infiocchettato per l’occasione non può dissimulare il brivido del discolo apprendista di avventure.
Ma non è un bambino, tutt’altro. Un attempato signore, per certa letteratura. Un appartenente alla terza età, per certi altri amanti della correttezza. Un vecchino, a casa nostra, dove chiamare le cose col loro nome è segno di affetto.
Un vecchino d’altri tempi: andato dal barbiere per l’occasione, è rasato alla perfezione intorno ai baffi bianchi; capelli pure bianchi, ben impomatati. Giacca e camicia entrambe a quadri, di una foggia che non si trova più neanche al mercato di paese, e meno che mai nei negozi con pretese vintage. Appuntati al bavero, in forma di spilla, i ricordi ben vivi di una militanza giovanile. Dal taschino spunta una penna finto-oro che sì, concede qualcosa agli stereotipi, ma può sempre servire. I mocassini poi rimettono a fuoco immagini d’infanzia, uguali a quelli di certi amici del nonno, quando lo venivano a trovare. E… non notata prima, la cartolina è completata da un autentico tesoro: sulla cappelliera c’è una valigia. Di cartone. Chiusa con lo spago. Incredibile. Sono sul set di un film. Sono andato indietro nel tempo e sono salito su un treno degli anni cinquanta. Sto sognando. Passo in rassegna tutte le spiegazioni possibili per tanta meraviglia, finché, con mia sorpresa ancora maggiore, il vecchino estrae un cellulare.
È un brusco ritorno al contemporaneo, ma non è deludente. Il vecchino infatti lo approccia con incertezza tenerissima. Armeggia un po’, non sembra raggiungere l’obiettivo, lo ripone con l’aria di chi rimanda senza pensieri una questione.
Dal finestrino entra un sole irruente e fastidioso. Ci sarebbe la tenda ma Aldo non la tira. Rimane fermo lì, a farsi cuocere la faccia, proprio come fosse una cosa che non può più permettersi di perdere, e un pizzico di malinconia nell’aria mi suggerisce che forse sì, è proprio così. 
Poi dobbiamo scendere, e cambiare treno per arrivare a destinazione. Fortunatamente anche Aldo viene a F., e quando arriva il nostro secondo treno posso ammirarlo accostarsi per primo alla porta del vagone ma invitare tutti a salire prima di lui, nonostante ci sia il pienone e lui abbia ben diritto di reclamare un posto a sedere. Non lo fa per un eccesso di umiltà o di educazione, o per dimostrare qualcosa. Lo fa così, perché non è nemmeno previsto che si possa fare in un altro modo. 
Aldo ha lasciato la terra natale tanti anni fa, per andare a cercare lavoro, fortuna e famiglia dove sembravano esserci prospettive migliori. È andata bene, non benissimo, ma ad Aldo già sembra di aver raccolto anche troppo, più fortuna di quella che meritava, più di quanto gli bastava e gli basta per vivere sereno, con la fronte alta, con quegli occhi che possono guardare tutti dritto per dritto. Aldo non ha conti in sospeso, non ha mai rimandato un bicchiere di vino o una canzone se la compagnia era buona, non è mai andato a casa presto se c’era bisogno che dicesse la sua o che ascoltasse quella degli altri. 
Ora torna, perché, con uno dei pochi amici rimasti, dovranno andarne a salutare un altro, per l’ultima volta. Quello più giovane di loro. Quello che, quando erano giovanotti, avevano aiutato e protetto, perché veniva da una famiglia sgangherata e certi malintenzionati gli avevano messo gli occhi e qualche volta anche le mani addosso. Quello che poi era cresciuto con gli stessi valori, le stesse idee sulla vita, che aveva fatto più strada di loro ma non aveva dimenticato, e non si era mai allontanato da quella linea che avevano disegnato insieme da ragazzi. L’unica fregatura gliel’aveva tirata adesso, salutando in anticipo, quasi scappando.
Aldo tira di nuovo fuori il cellulare e stavolta chiama senza esitazioni l’amico. “Felice?” … “Sì, sono io, sto arrivando, un quarto d’ora e sono lì” … “eh, lo so anch’io che sarebbe stato meglio se fossi tornato per un altro motivo” … “Senti, Felice, lo sai cosa ti dico? Che questa faccenda che se ne vanno sempre i migliori, che gli eroi muoiono giovani e belli, ha un po’ rotto i coglioni. Va bene, è una bella idea, è romantica e nobile e tutto quello che vuoi… Però, anche se arrivassero a cent’anni, non ci sarebbe mica niente di male, no? Morissero anche un po’ di stronzi, ogni tanto”.

venerdì 17 maggio 2013

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 15




Titolo di giornale: Uomo smembrato, spunta l´incubo serial killer

ed ecco il mini-racconto inerente:

L'ABILITA'

Guido era un uomo di 40 anni, il sorriso sincero e la pancia pure. Gli importava poco del suo lavoro, spalava merda nelle fattorie, ma non era per quello che non si curava del mestiere, era perché Guido, in tutta onestà, non sapeva fare niente. Non eccelleva in nulla: era un esemplare nella media, la media bassa a voler essere precisi. Guido si svegliava presto, all'alba, non si accorgeva delle venature del cielo, non badava all'arietta pungente che gli solleticava la punta del naso e non pareva interessato a far conversazione. Guido indossava la sua tuta, gli stivaloni e tanto gli bastava.
Tra gli amici non era certo il più cercato, né il più loquace, né il meno. 
Non si accorgeva della buona cucina ma riconosceva quella cattiva. Andava in vacanza a Rimini, all'Elba e in quelle isolette greche dove si beve come spugne e si ritorna stanchi.
Guido non leggeva, amava una donna... si fa per dire e dentro di sé, in un luogo molto distante, sapeva di non avere speranze.
Un giorno, costretto dalle paturnie del suo carburatore, prese l'autobus per andare dalla campagna alla città. Stava seduto, svogliato, fiacco a osservare la strada andare via, pezzo a pezzo, dal finestrino. Fu in quel momento, in quell'esatto momento, che vide parte della sua pelle rimanere attaccata al vetro. Uno scampolo di guancia, un millesimo di carne andato perduto. L'orrore. Il povero Guido era dilaniato dai dubbi. La paura di avere un'esotica malattia incurabile e seri timori sulla sua sopravvivenza lo avevano abbattuto. Sentimenti così violenti e disordinati da poter essere paragonati a feroci trombe d'aria, fenomeni maestosi che ti sconquassano, portandosi via il vecchio e facendo emergere nuovi orizzonti. Era nudo di fronte a se stesso, scarno, forse per la prima volta. Strinse con forza le mani sui braccioli e si accorse, non senza disappunto, di essersi separato di parte dei polpastrelli. C'era in quel forzoso distacco qualcosa di dolce, una malinconia dosata: l'estetica dell'abbandono. Capì - fatto singolare per lui - cosa avrebbe dovuto fare: lasciarsi andare, mettersi in scena, farsi prendere. 
Stava donando una parte di sé al mondo, al mezzo pubblico in quel caso. Stava tramandandosi. Un pensiero folle, intendiamoci, ma c'era, in quella pazzia un postulato profondo, una verità innegabile: Guido era capace di far qualcosa. Era padrone di un'abilità tutta sua: sapeva perdere se stesso, poteva darsi senza riserve e lasciare una traccia, come i poeti, come i geni. Consapevole di quella bravura iniziò a seminare unghie, peli, falangi un po' ovunque. Marcava il territorio. Alle poste si era sbarazzato di un quarto di chiappa, se lo meritavano! Non ricordava d'essere stato più felice, più leggero. Rideva, perdendo un canino. Rideva, salutando un polpaccio. Rideva, dividendo uno stinco.  Rideva di cuore. E a chi lo avrebbe lasciato il cuore? Quello era un bell'impiccio. Alla fine, perché a quella puntava, avrebbe dovuto separarsi anche dal suo muscolo migliore. Sua madre non lo meritava, suo padre era morto da un pezzo e alla scienza non sarebbe interessato. Che farne? Non aveva nostalgia del suo corpo, nessuna sindrome da arto mancante, aveva persino dimenticato con indifferenza il pene nella bocca di una prostituta ma... con il suo cuore, non voleva sbagliare. Per comprendere appieno le potenzialità del suo fisico, sempre più spesso si liberava di parti importanti e inventava nuovi modi per camminare, per parlare, per esistere. Sfiancato da tutta quell'arte e beneficenza, una sera di dicembre decise di dedicarla a se stesso. Respirava appena, sdraiato malamente sul grande divano. A tal punto indolenzito e solo capì di essere vulnerabile, di essere incompleto. Pianse. In televisione vecchi ritrovavano vecchie, bambini abbracciavano nonne e sgualdrine sembravano suore. Pianse. Un uccellino sconfitto dall'inverno volò sul davanzale, finito. Pianse. La luna, gigante, illuminava un cielo vivo e nero. Pianse. Sopraffatto da tutto quel sentire, percepì a stento il distacco, lieto. Vide il suo cuore rotolare sul tappeto, battere un'ultima volta e venire dimenticato. 

di Manuela Paric'

lunedì 13 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #6 di Paolo Marcotti


#6
Ha gli occhiali con la montatura rossa, evidente anche da lontano, nella cornice dei capelli biondi. Indossa spesso la gonna, sopra al ginocchio. Da seduta risale, si accorcia, ma lei bada a non concedere nulla. Probabilmente non è ignara di quel fascino, più da professoressa che da segretaria nel suo caso, quel pensiero voluttuoso, quella certa scintilla con cui la donna, anche non troppo avvenente, appicca il fuoco a sottoboschi maschili più o meno addormentati. L’uso femmineo della verticale occhiale-camicetta-gonna-tacco può variare dal candido inconsapevole al delittuoso: perciò, pur con rammarico, apprezzo e ammiro la saggezza di questa controllata parsimonia.
Salgo sul treno ed è già al lavoro. Arriviamo a destinazione e, pur essendo il capolinea, non smette, non raduna le sue cose, non accenna a scendere. Durante l’intero tempo del viaggio lavora con continuità e concentrazione, senza pause. Il lavoro non le pesa; non lavora come un automa, ma nemmeno con amore. È spietata, nient’altro.
Sta sempre nel primo sedile, nell’angolo dietro la porta, appena entrati nel vagone. Protegge con riserbo se stessa, il suo lavoro, la sua impermeabilità. Non parla mai, non chiama, non riceve telefonate. Il suo aspetto e i suoi modi sono così essenziali da non lasciare spazio per suggerire un nome, e scoraggiano tentativi di affibbiargliene uno così, per approssimazione. L’unica concessione alla frivolezza è una indefinibile e imprevista idea che trasmette: un certo sapore da opinionista di talk show televisivo. È un pensiero che probabilmente le causerebbe orrore. 
Lavora, impassibile e indecifrabile, ma il mistero non riempie l’aria, non si odora, non si tocca. Il suo è un segreto senza brividi, senza scuri, limpido come acque e cieli primaverili. 
Consulta senza sosta pile di scartoffie su carta intestata, nella sua immutabile e leggera routine, a mezz’aria.
È proprio questa leggerezza che cerca, il suo miraggio, il suo impegno, la sua vocazione.
Tutte le sere, giunta a casa, si allena a volare.
In uno spazio e in un tempo noti solo a lei, esercita la mente e il corpo a salti in lungo che scavalcano un intero campo, a schiacciate in canestri posti ad altezze aeronautiche, a picchiate che allenano il petto a sopportare la compressione e il batticuore, a lunghe planate sorretta dal vento e da una piacevole e pulsante emozione di padronanza e libertà.
Padronanza delle leggi del volo, ma padronanza anarchica. Il volo ha tecniche, non regole. Il volo è possibile solo senza vincoli. Volo per esplorare. Volo per mettersi in gioco. Volo per studiarsi. Volo per scoprire un limite, un confine, e fermarsi un battito d’ali prima. Volo per andare oltre. Volo per negare e superare una pila di scartoffie su cui controllare che tutte le norme siano rispettate e che tutti i conti tornino.
Ieri, forse non del tutto involontariamente, mi sono attardato nello scendere. Finalmente ho visto la donna dagli occhiali rossi riporre le sue cose e lasciare il suo posto. Procedo in quella direzione e mentre mi avvicino noto che sul sedile vuoto è rimasto qualcosa. Avanzo ancora per quei pochi passi. 
E… sì… certo. È una piuma.

venerdì 10 maggio 2013

Fiabe minuscole: La bimba e la luna

Inauguriamo una nuova rubrica in collaborazione con Il piccolo doge di Sylvia Baldessari. Fiabe minuscole: brevi metafore per bimbi.


La bimba e la luna
La bambina osservò il cielo scuro, si voltò verso la mamma e le disse con la vocina rotta: 

- Si è fatta male la luna,... guardala... le manca un pezzetto! -

La donna la rassicurò con dolcezza, parlandole seria e decisa.

- Guarirà amore, sta solo giocando a nascondino con le stelle. -

Le ricordò che avrebbe dovuto avere pazienza, guardare più spesso in su e divertirsi ogni sera a cercarla.

Così, in una notte di luna piena la piccina alzò gli occhi al cielo, sorrise. 

- ...mamma il pezzo di luna è tornato!...sarà contenta la luna! Credo abbia vinto. -


di Manuela Paric' 2011



giovedì 2 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #5 di Paolo Marcotti


#5
Maledizione. Di nuovo lei. Di nuovo quella voce metallica, fastidiosa, quel tono insopportabile che buca l’aria.
Stai zitta! Sei pendolare anche tu, no? Non lo sai che vogliamo leggere, dormire, pensare ai fatti nostri in tranquillità, creare del salubre vuoto dentro la testa? Cos’hai di così indispensabile da dire, da trasmettere con tutto questo fervore? 
La signora Silvana, o come diavolo si chiama, pare una di quelle megere dei cartoni animati, quelle vecchie cattive che impressionano i bambini, anche se vecchia non è. 
Chioma di capelli biondo-bianchi che, più che la conseguenza di una piega, è il risultato di una zuffa tra gatti. La bocca è spiacevolmente rientrante rispetto al profilo, come quando la nonna si leva la dentiera per andare a dormire. Magra come un chiodo, evoca sensazioni di ghiaccio e rigidità. E, naturalmente, gracchia come una cornacchia isterica, sovrastando qualsiasi altra cosa nel vagone. 
Taci! Cazzo! 
Quando scende, si avvia veloce, con un passo sovrannaturale, ad alta frequenza, quasi robotico ma comunque fluente. Sotto la gonna, di taglio e lunghezza ultra classici, lavorano due gambe tornite nel legno da uno scultore di montagna. Sale le scale con decisione caprina. I polpacci, definitissimi, divorano i gradini, famelici. 
Quando, seduta nel suo sedile con un portamento che lo fa sembrare un trono di marmo, inforca gli occhiali, l’immagine è chiara, limpida nel suo riproporre un passato che ancora scotta. È quella professoressa di greco e latino, algidissima e severissima, che scorre con l’indice l’elenco dei nomi sul registro. Gocce fredde popolano le fronti e scivolano sulle schiene. E oggi, certo, interrogherà proprio te, proprio te che non sei preparato, ammesso che si possa mai risultare preparati al suo cospetto. 
Il quattro è garantito. Sarai rimandato a settembre, l’estate è rovinata, con tutti i suoi progetti e i suoi sogni. Dovrai penare su quel maledetto aoristo, oppresso dal caldo, dal sudore, dai rimpianti. Verserai lacrime da adolescente, disperato.
La signora Silvana, professoressa Silvana o chissà che altro, forte di queste circostanze, si fa beffe del prossimo. Ama gli scherzi crudeli. Più di tutto, ama creare e vedere sbigottimento, paura, terrore.
Il suo pezzo forte, quello che le dà più gusto, è piazzarsi dietro una curva su una strada con poco traffico, quando la luce comincia a calare. Appena sente un’auto arrivare, proprio un attimo prima, con un balzo atterra improvvisa al centro della strada. Negli occhi saettano fuoco e fiamme, la bocca si apre su un ghigno fosforescente, la posa del corpo ricorda certe rappresentazioni medievali del diavolo. 
Mentre lei, con un balzo successivo, si è già dileguata portandosi al sicuro, il guidatore, dopo aver inchiodato disperatamente, cerca invano di scacciare i mostri che si accalcano nei suoi occhi e nella sua mente, il fiatone, il batticuore, il sudore freddo.
Più che uno scherzo, quasi un delitto. Bisognerebbe fare qualcosa. Andrebbe denunciata, ecco. Ma nessuno ci pensa. Tutti sanno, e nessuno osa.
Tutti tornano a quel registro, a quel dito che si è fermato proprio su quel nome, a quella voce che l’ha chiamato, a quell’estate spezzata. Quel quattro in greco fa ancora paura.

mercoledì 1 maggio 2013

Blog Tour: Vera Q.



Oggi vi presentiamo l'abile e truce scrittrice Vera Q. 
Una penna libera e impertinente come un deretano al sole. A voi!

1 .Ok Vera Q. parlaci del tuo libro, fallo come desideri e dacci 3 buoni motivi per leggerlo e uno per non leggerlo.
2017 A.D. nasce dopo aver visto l'ennesima sparatoria nel solito telegiornale: A, alleato di B, crivella C, mentre D, alleato di A e di C, non sopporta B. Il tutto in un guazzabuglio di proiettili. Chiaramente le spese delle decisioni di A, B, C, D le subisce esclusivamente P.

Da leggersi come Popolo, Poveraccio o Perseguito. Incassiamo costantemente guerre, torti, nefandezze che non ci appartengono, chini e curvi, e molto spesso impotenti.

Così, prendendo spunto da una realtà che viaggia su di un treno senza freni e macchinista, ho descritto, a modo mio, la stazione d'arrivo. Postaccio, credimi.
Questo ebook, senza dubbio, è una lettura azzeccata per gli amanti del cinismo e dei toni cupi. Non mancano angoscia e quella simpatica sensazione di soffocamento.
Tuttavia sono certa che ciascuno prenderà le parti di uno o più degli odiosi personaggi. L'empatia non contraddistingue solo le parentesi rosa sviluppandosi anche nel nero pece.
Se cercate qualcosa di insolito, improbabile e con un epilogo inaspettato 2017 A.D. è il vostro libro.
Ne sconsiglio la lettura a tutti coloro che sognano puffose storie d'amore: questo romanzo è un incubo ed io, a tratti, sono Freddy Krueger.