sabato 29 marzo 2014

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 20

Titolo di cronaca: "A 70 anni deruba ultraottantenne."

Questo il mini racconto ispirato: La pera.

Vincenzo era lento. Picconava l'asfalto con il suo bastone e si lasciava alle spalle minuti di vita preziosa. Era vecchio, molto vecchio. Aveva ottantanove anni, undici mesi, ventinove giorni e una manciata di ore. Ogni mattina indossava un  paio di pantaloni gessati, scarpe lucide e la cravatta; si impomatava i quattro peli bianchi che gli erano rimasti in testa e affrontava i tre chilometri di strada che separavano casa sua dal mercato ortofrutticolo. Contava puntiglioso ogni moneta conservata con cura nel portafoglio e si soffermava qualche istante a ripensare ai tempi andati. Vedeva il mondo cambiare velocemente, lui avvizzire e il cemento arrivare ovunque, anche sulla luna. Per Vincenzo non era facile ricostruirsi giorno per giorno, adattarsi al suo breve futuro e camminare. Però, Vincenzo non mollava. Era un uomo semplice e a quello si aggrappava: il tè caldo e la macedonia di frutta fresca. Cose che lo mantenevano sano e saldo. Non sarebbe morto rintanato sotto un piumone e avrebbe lottato prima di farsi accudire da qualche badante latina dai seni grossi e dalla risata sconfortante. Le insidie della città moderna gli facevano un baffo, le affrontava disinvolto, rughe alla mano ed espressione svanita per partire al contrattacco. I giovinastri, così gli piaceva additare i liceali o i ragazzetti agghindati stranamente, gli stavano alla larga, turbati dal suo "vecchiore". I malintenzionati invece si accorgevano subito dei pochi spiccioli che avrebbe fruttato e procedevano lesti verso più ghiotti bottini. Al mercato s'era anche fatto qualche amico. La signora Maria lo salutava con un bacio sottile e Babatunde, il berbero delle cassette, gli teneva da parte qualche primizia. Tutto sommato aveva ancora di che essere felice. Quel giovedì l'inverno gli era entrato nelle ossa e la brina aveva lastricato ogni via. Si sarebbe cucinato una grossa pera cotta, con tanto zucchero e cannella. Uno sfizio. Babatunde gli aveva assicurato che sarebbe arrivata una partita di pregiatissime Abate Fetel, provenienti da un minuscolo consorzio nella Valle del Giovenco e aveva promesso di conservargliene una, la più bella. Vincenzo se la pregustava, dolcissima. Una piccola gioia, perfetta per scaldargli l'anima. Nel capannone c'era un gran fermento, ogni bancarella era presa d'assalto e camion di diverse dimensioni si accostavano agli ingressi vomitando bancali su bancali di merce. Invadente e malfermo l'anziano si intrufolava tra la gente, chiedendo scusa e borbottando dei suoi malori. Con una certa decisione riuscì a raggiungere Babatunde. Questo stava discutendo con un ometto incartapecorito e brandiva una pera rugginosa come fosse uno stiletto. "La MIA pera", pensò subito turbato Vincenzo. Senza indugiare oltre l'afferrò, salutò l'amico e voltò le spalle all'omuncolo rissoso. Era soddisfatto, talmente soddisfatto da raddrizzare la schiena e incedere a grandi improbabili falcate. S'era alzato anche il vento e il viottolo che attraversava il parco era diventato un assassino pericoloso. Il sacchettino con dentro la frutta gli urtava il fianco e la gamba gli faceva sempre più male."Peccato non poter correre", sussurrava dominando l'affanno.
- Ridammela! 
Il vecchiaccio del mercato lo aveva pedinato, era facile seguire Vincenzo anche per un vegliardo con il deambulatore.
- Ridammela! Maleducato. Pezzente. 
Urlava trasfigurato dalla fame e dalla gola, si appoggiava al ferro del trasportino e stringeva i pugni fino a far diventare le nocche bianche.
- Incivile arrogante zoticone! Ridammela!
Seguitava.
Vincenzo dapprima paralizzatosi dalla paura, sentì crescere tra le membra stanche l'ardore del soldato. Si inguainò in un'uniforme di speranza e coraggio e affrontò il rivale.
- Era già mia. È mia e me la mangio io.
Si batteva la mano aperta sul petto e affilava lo sguardo di secondo in secondo.
L'altro avanzava. 
Erano naso contro naso. Alito acido contro alito fumoso. Bastone contro deambulatore. 
In silenzio.
Tra loro la pera Abate oscillava nella plastica.
- La vuoi fare cotta?
Chiese disgustato il veterano basso.
- Anche se fosse?
Sbavò Vincenzo.
- È mia.
- Mai!
I due vecchietti iniziarono a strattonarsi e parti di loro scivolarono, saettarono e caddero sul terreno ghiacciato. I pochi capelli di Vincenzo puntavano scomposti verso il cielo e gli occhialini del suo sfidante gli erano finiti sotto il sedere. 
Forse, forse stava vincendo.
La lingua lunga e bianchiccia dell'omino si strofinava sul suo braccio e dei denti in ceramica tentavano di ferirlo. 
Forse, forse avrebbe potuto stordirlo con una pietra. 
Allungò il braccio sinistro. 
Un enorme sforzo. 
Strinse la pietra, tenace. 
Chiamò a raccolta ogni suo muscolo.
Pronto.
Un lampo, uno squarcio, un dolore lancinante gli spaccò il torace.
I nuvoloni neri si fermarono, i suoni anche e lo spirito prima concitato cessò di esserlo. Vincenzo si sentiva svanire, debolissimo. Il cuore gli era diventato pesante e il freddo lo stava ghermendo come le unghie di una strega malvagia.
"Morirò"
Non era pronto. 
- Le pillole...nel panciotto...pillole...
Biascicava all'orecchio del nemico.
- Te la chiamo io l'ambulanza, tranquillo. 
Disse questo raccogliendo la bustina con la pera e ficcandogli in bocca una pasticca per il cuore.
- Mi vendicherò...
Fece in tempo a rispondere Vincenzo, vibrando un ultimo colpo in aria prima di svenire.


di Manuela Paric'
Foto di Emiliano Zanichelli

mercoledì 26 marzo 2014

Blog Tour: Riccardo Bruni.

Intervista a Riccardo Bruni. Giornalista, scrittore, amante della musica e del buon cinema…che dire? Benvenuto!


1.       Parlaci di te, ma fallo come se fosse il protagonista principale del tuo romanzo “Zona d’ombra” a descriverti. (Pentito?) Cogli anche l’occasione per illustrarci il romanzo e raccontarci i sordidi retroscena della tua produzione.

Fabrizio Baraldi: “Bruni? Lo conosco come collega. Mi piace il modo in cui è in grado di scrivere un pezzo sul punteruolo rosso con lo stesso registro e la stessa tensione di uno che sta scrivendo un reportage da una zona di guerra. Peccato che sia così pigro. Una sera l’ho visto in un cinema. Era da solo, con un sacchetto di noccioline dolci che ha aperto solo quando è iniziato il film. Ho pensato che a guardarlo così era un tizio ordinario, il soggetto ideale per essere reclutato da certa gente. È uno di quelli che alla fine del film resta a leggere tutti i titoli di coda. E per farlo serve autocontrollo.”
Fabrizio Baraldi è uno dei protagonisti del romanzo. È un giornalista ambizioso, ma non si trova bene con “certe regole del gioco” e per questo finisce col farsi mettere da parte. Ma proprio nel momento in cui tutto sembra cadergli addosso arriva una strana proposta, un lavoro apparentemente tranquillo che lo porterà invece a seguire una storia dalle implicazioni incredibili. La sua indagine che riguarda la morte di Zerman, il leader del Fronte Nazionalista del Triveneto, è il primo nucleo della storia sul quale ho iniziato a lavorare.

 ...continua a leggere

venerdì 21 marzo 2014

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 19

Titolo di cronaca: "Città fantasma tra silenzi e speranze." 

Ho provato a sperimentarmi con una prosa didascalica, abbiate pazienza.

Questo il mini racconto ispirato: DADEMO.



Dademo è una città fantasma.
A Dademo nessun uomo è libero.
A Dademo nessun uomo è vivo.
Esiste solo Il quartiere. Quattro chilometri quadrati di terra battuta occupati da seggiole.
Nel quartiere ci siano noi.
Noi non abbiamo bisogno di sedie, eppure ce le fanno usare. Aiutano a mantenere l'ordine, dicono.
A Dademo non si replica, si ubbidisce. 
Soprattutto non si dorme e non si sogna. 

Mi hanno ucciso trentadue anni fa, insieme a molti della mia razza.Sono rinato esattamente cinque mesi dopo, pronto per essere uno schiavo. Il vantaggio d'esser morti è quello di non doversi più prendere cura del proprio corpo: non ci ammaliamo, non soffriamo, non uriniamo. Siamo braccianti attivi ventiquattro ore su ventiquattro, il meglio sul mercato. La nostra umanità è soppravvissuta, i ricordi, le emozioni, i pensieri perdurano. La volontà invece è svanita, seppellita sotto chili di carne e neuroni affranti. 
I Signori hanno sempre bisogno di terra, roccia, minerali e materia nera. Costruiscono alloggi, gioielli, oggetti su oggetti. I Signori vendono, barattano e producono. Vogliono tutto. Esistono solo per accumulare cose e conoscenze. Il loro mondo non è molto diverso da quello che era il mio, solo meno confuso. Ci hanno iniettato qualcosa di blu nelle vene e tutto in noi è diventato duro. Ci chiamano le anime di marmo, ma nessuno di noi ha un nome. Non serve. Quando non lavoriamo rimaniamo seduti, in silenzio a guardare le spalle delle spalle degli altri servi a riposo. Ciò che ci circonda è grigio, abbiamo perso i colori nella dipartita, quelli sì. La mancanza di rosso, giallo, verde, si fa sentire. Questo luogo stinto ci entra nella testa e logora i nostri sentimenti ammaccati. Io attendo una crepa, una falla nel sistema perfetto, in me. Non sono mai stato un uomo d'azione, ma ho pazienza e coraggio quanto basta: resto in attesa della mia volontà, la coltivo. Qualche giorno fa stavo scavando nelle miniere a ovest in cerca d'una vena di materia nera. Colpivo la roccia senza sosta, efficiente. Ai miei piedi cadevano pietre e cristalli. Uno di questi, grande come un dito e altrettanto lungo, era rimbalzato sullo scarpone. Mi pareva bello, luminoso e lo desideravo. Prendilo, gridavo nei miei pensieri. Lo voglio, prendilo, è solo un piccolo inutile sasso. Allunga la mano, mettilo in tasca, fallo tuo. Niente, è rimasto a terra a coprirsi di polvere. Ho usato il piccone per altre sei ore, senza sudare. Quando ho preso posto sulla mia seggiola la notte stava già svanendo. Ho desiderato chiudere gli occhi e allungare le gambe e l'ho fatto, senza sforzo. Che strano. Nessuno si è voltato a guardarmi, io sì. Una scossa simile al rumore sordo d'un tamburo mi aveva attraversato. Forse, mi dissi, la prossima volta avrei stretto tra il palmo un cristallo.
Il cambiamento iniziò dalle piccole cose. Sceglievo con cura maniacale la sedia su cui rilassarmi, perché ora mi rilassavo. Facevo ruotare il collo e osservavo il cielo plumbeo e fumoso. In tasca nascondevo decine di minuscole pietruzze e mi allacciavo gli stivali dietro alle caviglie. Avrei voluto di più. Arraffavo e seppellivo ogni cosa che mi sarebbe potuta tornare utile o che mi piacesse. Seguivo la scia dei miei impulsi e sapevo che sarei fuggito, la mia volontà si stava manifestando, morbida e lussuriosa. 
I Signori non badavano a noi anime di marmo, non chiudevano gli accessi agli scivoli e ai condotti che portavano nelle loro città. A Dademo nessuno scappava perché nessuno era vivo, così credevano. Non avevo paura d'esser ferito, i miei desideri erano tornati ma rimanevo comunque insensibile a tutto ciò che mi comportasse sofferenza o fatica. Mi avevano ricreato perfetto. Un piccone, metri di corda, una pila da testa e i miei tesori; questo avevo quando entrai nel tunnel. Era un passaggio utilizzato per trasportare la terra, c'era umido e si scivolava. Sembrava infinito. Quanto distante era la civiltà? Sentivo il bisogno d'essere altrove. Passo dopo passo ero bombardato da immagini della mia famiglia: una figlia, una moglie bionda e una casa accogliente. Rivolevo tutto. La mia poltrona in pelle, le ciabatte pelose e i pavimenti in legno. Tutto.
Camminai per ore, forse giorni, al buio. Ero avvolto da un telo corvino che pareva farsi sempre più spesso. Arrancavo. Il fango si incastrava dentro le suole e mi faceva sprofondare. Il mondo era denso e ogni passo faticoso. Ricordavo il barone di Münchhausen nelle sue imprese oniriche. Arriverò alla luna, recupererò il senno. Non c'era altro oltre me: nessun insetto, nessun animale, nessun rumore. Poi, dal nulla, una porta. Bianchissima. Una porta? L'aprii cauto, una luce abbagliante mi infiammò gli occhi. Colori, ovunque. Io ero sdraiato su un letto e attorno a me c'era una donna, un uomo in camice e una bambina vestita di rosso. Non riuscivo a parlare, che ne era stato della mia fuga?
-E' tornato? - Gracchiò la signorina imbellettata d'oro e cipria.
- Sì, è guarito. -
Il dottore mi prese il mento tra le mani e ispezionò ogni centimetro del mio viso.
- Guarito! -
- Ci saranno ricadute? -
- Lo sa, ci sono sempre col tempo. Ognuno di noi a lungo andare smette di desiderare, di accumulare, di comprare. E' il dazio della vita infinita, una noia dell'evoluzione. -
- E' terribile! Capiterà anche a me? - chiese, continuando a stuzzicare il gigantesco anello che portava all'anulare.
- Io voglio i giocattoli, madre. - si intromise la piccina. Aveva una vocina lamentosa e uno sguardo affilato e adulto.
- Appena papà starà meglio. Vedrai, ti regalerà tutto quello che vuoi. -
La donna sorrise e si lisciò le lunghe unghie smaltate sulle labbra gonfie.
Dove è finita la mia ribellione?
Tra le pieghe del mio portafoglio.
Ne ero lieto, sentivo che oltre Dademo mi aspettavano chilometri di merce da fare mia.
Ero tornato.

di Manuela Paric'

Foto di Luca Moglia

martedì 18 marzo 2014

Breve estratto da "L'enigma delle anime perdute". Luglio padano.

"La notte era calata da ore. L’afa aveva lasciato spazio a un venticello leggero, quasi inutile. La città si era spenta e tutti si erano mossi verso la campagna per passeggiare sotto un cielo limpido e scuro. Quelli che erano rimasti, schiacciati dalla consuetudine o pigri di natura, si barricavano in casa, condizionando sia l’aria che loro stessi. Tra questi, i meno fortunati aprivano la porta di qualche minuscolo terrazzino, ungendosi e ungendosi per non essere divorati da zanzare tropico-nostrane, demoni amanti dell’uomo fritto e servito. Sacrificati su sedute il più delle volte scomode, agonizzavano, osservando le tenebre o la televisione con medesimo interesse. Era una tipica sera del fiacco luglio padano."


Da "L'enigma delle anime perdute" di Manuela Paric'
Immagine di Alberto Bottura.

mercoledì 12 marzo 2014

Brevissimo estratto da "L'enigma delle anime perdute" - Il calzolaio.

"La bottega del calzolaio era un buco pieno di tacchi. Tacchi da donna accatastati sul bancone, torri di rialzi, solette e grumi di laccetti abbandonati qua e là. Il negozio aveva mantenuto, nonostante il disordine, un certo fascino antico. I pochi mobili erano di noce scuro, e su tutto dominava un lampadario di cristallo e bronzo. Dietro a una montagnola di calzature usate, fruste e scolorite stava il ciabattino. Un ometto esageratamente basso, unto. Pochi capelli neri, lucidissimi erano disegnati su una testa perfettamente tonda. Aveva le mani cicciotte e callose, una maglia dai disegni etnici e ciabatte infradito. Salutò Jean-Luc piegando il capo e facendo brillare denti bianchissimi.
Bizzarro!, si disse Mocha abbassandosi per non incastrare il cappello tra le gocciole di vetro sbeccato del lampadario." 

lunedì 10 marzo 2014

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 18

Titolo di giornale: "Ucciso nel cimitero"

e questo il mini racconto...un colore diverso dal solito...

Sulla collina c'erano tre lapidi.
Lì stavo andando.
La luce della luna le avvolgeva e i riflessi sul marmo sembravano lucciole.
In inverno, che idiozia.
C'era un unico cipresso, altissimo. Un gigante nero, un custode. Mi piaceva immaginare su un ramo una civetta e fingere di sentire l'urlo del vento tra le fronde.
Era la notte giusta.
L'aria ghiacciata s'era appoggiata sul sentiero e i sassi scivolavano sotto le mie suole come rivoli d'acqua. Io respiravo con la bocca aperta, a grandi sorsate, ero pronto. Avevo riempito la sacca con un panino e il coltellaccio da macellaio del nonno. Era arrugginito e ritorto, faceva paura. Oltre i cespugli gli animali selvatici stavano cacciando, c'era odore di foglie secche, di fango e d'escrementi. Sulle tombe erano cresciuti rovi ed erbacce. Gli epitaffi erano illeggibili e le tracce dell'uomo lontanissime. 
Continuavo a camminare e pensavo a Giustina. Era buona e ingenua. Abbracciava il mondo con i suoi sorrisi e non aveva paura delle cattive persone, non le vedeva e basta. Aveva fiducia, una fiducia che io non avevo più da quando mi avevano chiamato per riconoscere il suo corpo vessato, torturato e stuprato. L'avevano lasciata con le gambe aperte, a testa in giù, con la faccia schiacciata dentro una pozza d'olio di motore. Era morta mezza nuda e mezza puttana. Odiavo tutti, nessuno meritava di vivere, non le persone, almeno. Ero rimasto a disperarmi per giorni, rifugiato dentro i miei pensieri, lontano da tutto, inerme. Ora invece, avevo un piano. Un progetto terribile, sanguinoso e definitivo. Avrei cancellato ogni traccia di male, tolto ogni speranza e restituito dignità alla terra. I buoni propositi richiedono coraggio, avevo anche quello. Ero abituato a farmi carico delle questioni importanti e sulle spalle portavo il destino del mondo.
Diedi uno strattone alla corda. Carlo, quel bastardo, avanzò trascinando i piedi. Sarebbe stato il primo. Non provava più nemmeno a urlare, i miei pugni gli avevano fatto passare la voglia, avevo spento ogni ribellione. Carlo era uno stronzo. Nato, cresciuto e confermato stronzo. Lo conoscevo da più di vent'anni e non lo sopportavo da altrettanti. Viziato dalla madre che amava, sportivo e bello. Si approfittava dei vecchi e rubava ai poveri. "Tanto son disgraziati", diceva. Aveva rubato anche a me: trenini, merende, fidanzate. Ero contento che fosse il primo.
Una nube grigia coprì la grande luna e in un attimo il buio ci prese. Un breve panico, un battito in più, paura.
E se non avesse funzionato? Non era possibile. Mi ero informato bene, era un buon piano.
Finalmente raggiungemmo la vetta. L'erba sembrava schiacciata dalla grandine e oltre il cipresso si vedevano i "brillori" della città. La mia città. Ne sarebbe rimasta cenere.
Legai Carlo alla lapide più grande, ben stretto. Quattro giri di corda e un calzino in gola. Era tardi, forse le due. Avevo la saliva amara e fame. Mi ero portato l'ultimo pasto: una baguette con la mortadella. La mangiai in fretta, divorai il maiale lasciando che il grasso mi ungesse le labbra e mi sporcasse le dita. Avevo bisogno d'energie, ne ero sicuro.
Carlo mi guardava, piangeva. Forse stava pensando fossi pazzo. Che sciocco
Tirai fuori il coltellaccio e lo vidi sussultare. Sempre più sciocco.
- Non è per te. 
"E per chi allora?" Sembravano dire i suoi occhi sbarrati.
- E' per me.
Era confuso.
No "amico", non ti arresteranno, non ti sto incastrando. Io sono un uomo d'onore, mantengo ciò che prometto.
Le stelle erano allineate. Iniziai a scavare a mani nude, così andava fatto; faceva male.
Carlo aveva smesso di porsi domande, sapeva d'esser spacciato e osservava il cielo.
Pregava?
- Non ti servirà a nulla. Dio è con me stasera.
E lo era.
Mi sistemai nella buca, mi buttai addosso qualche manciata di terra. Era fredda. Anche Carlo tremava, non mi importava.
- Sarai il primo, sarai il mio primo pasto e il mio primo figlio. 
Ora Carlo pareva uscire dalla sua stessa pelle. Il terrore lo attraversava come una ruga profonda e rossa.
- Quando risorgerò. 
Portai la lama arrugginita sotto la mia gola. Incisi, lieve. Non era facile come avevo creduto. Il taglio bruciava e piccole dolci gocce di sangue mi scorrevano lungo il collo. Non era abbastanza, dovevo morire. 
- Cammineremo per le strade e contageremo tutti. Non preoccuparti.
Carlo stava urlando, un rumore sordo filtrava dal calzino.
Che sciocco, pensai ancora e quasi risi.
Sarei rinato più forte. Già mi immaginavo inarrestabile, rinvigorito nello spirito e con un unico modesto e potente obiettivo: divorare, estinguere. Come sarebbe stato assaggiare carne di vecchio o di bambino? Zuccherino, agro? Mi sarebbe piaciuto.
- Metteremo fine a questa umanità corrotta. Ci rialzeremo come putridi zombie e porteremo il furore e la pace. Così accadrà.
Fu violento, presi la rincorsa e mi tagliai la gola. Pochi secondi di dolore inzupparono la mia speranza. Sarei tornato. 
Così credevo.
Passarono i giorni e anche Carlo morì, l'unica vittima. Che sciocco.

di Manuela Paric'

giovedì 6 marzo 2014

Rubrica: Storie di famiglia - Vera correva veloce.

Vera correva veloce. Stringeva il pacchetto ancora caldo. Non poteva permettersi d'essere fermata. Muoveva le gambe una dopo l'altra rischiando di far inciampare i piedi sui piedi. I tacchi quel giorno non erano stati una buona idea, ma ogni tanto aveva bisogno di sentirsi più alta, più bella, ancora donna. La guerra le aveva tolto tutto. Ora vivevano in quindici in due stanze, si lavavano in mare e mangiavano le patate con la buccia. La notte i sogni erano interrotti dalle sirene e la morte era sempre nell'aria. Si sudava. L'estate era arrivata calda e bella, nonostante gli aerei lasciassero scie in cielo e nessuno affollasse le spiagge. L'estate era lì, esplosa. A portata di pelle.
La infastidiva notare come molte cose nella loro sostanza fossero rimaste le stesse. Erano solo scalfite. La guerra era qualcosa di provvisorio e al contempo definitivo. L'idea che niente sarebbe stato più lo stesso e che nulla sarebbe cambiato la disorientava. Probabilmente il conflitto accelerava i processi, li rendeva più evidenti, segnava le tacche come un orologio troppo rumoroso. 

Quando donna Polona le aveva messo il saccoccio tra le mani, l'aveva sentita respirare a fondo, come se avesse fatto il primo respiro dopo mesi.
Donna Polona amava Pave con tutta se stessa, s'erano scelti: lei altissima, le spalle larghe e la gonna nera fino alle caviglie; lui calvo, con gli occhi blu e le mani da pianista. Avevano comprato una casetta in pietra vicino al porto e da subito provato ad avere un erede. Poi Pave fu mandato sulla torretta e lì ucciso. Donna Polona aveva passato un mese intero al buio, accovacciata sul letto, con la faccia schiacciata sul cuscino di Pave. Trenta giorni lunghissimi in cui il dolore aveva nutrito la rabbia e la rabbia creato pensieri assassini. Donna Polona voleva vendetta, solo dopo quella avrebbe ricominciato a vivere. Così aveva detto. E anche Tata Lenka voleva vendicare il figlio e tutti rivolevano Pave. 

Vera correva veloce. Stringeva il pacchetto ancora caldo. Pensava a Pave, suo fratello.
Erano passati sei mesi da quando lo avevano seppellito. Gli avevano messo un completo marrone scuro, più corto di dieci centimetri e sistemato i baffi con la brillantina. A Vera quei baffi facevano ridere. Ricordava e rideva. La prima volta che Pave aveva provato a farseli crescere era stato per la recita di quinta elementare. Doveva fare Zorro. Aveva rubato la lametta di suo padre e si era tagliato tutto. Pave non aveva mai rinunciato ai suoi baffi e se li era portati nella bara. 

- E' morto.
- Lo so.
- Capisco.
- Ho visto chi l'ha ucciso.

Donna Polona aveva baciato il ragazzo delle consegne e poi era andata a piangere, sola. Aveva affilato un coltello e s'era truccata gli occhi scuri con una matita scura.  Se l'era presa comoda: quarantotto ore intere, sempre sveglia. Poi aveva chiamato Vera.
Le aveva dato il pacchetto e ora Vera correva veloce.
Tata Lenka l'aspettava sulla soglia, gli zii contavano i rintocchi della campana e il cane era sdraiato sullo zerbino.
La vendetta aveva unito tutti, calda, sanguigna, rigorosa.
Avrebbero bevuto alla salute di Pave. Mezzo bicchiere di vino a testa, le loro scorte.

- Per te fratello.
Disse ad alta voce Vera appoggiando il cartoccio sul tavolo. Era umido e la carta da pacco s'era colorata di rosso.
- Prosit
In tredici alzarono i calici
- E' bello grande.
Concluse Tata Lenka stringendo il cuore del nemico tra le mani.




Racconto liberamente ispirato a una storia di famiglia. I nomi sono di fantasia.

di Manuela Paric'

foto di Francesca Woodman