giovedì 13 febbraio 2014

L'enigma delle anime perdute: sinossi, prefazione di Vera Q., primo capitolo!

Finalmente dopo innumerevoli sgambetti della vita, incidenti, abbuffate notturne, stasi e cavallette...finalmente il mio primo romanzo ESISTE! (Lo scriverò anche sotto i ponti e verrò fulminata) 

In copertina un dipinto del geniale Ottavio Taranto.

SINOSSI 


Un sole pieno, giallo e caldo. Non una nuvola. Nessuna brezza. Afa. Le strade luccicanti come se fossero state cotte dentro una gigantesca fornace e piccioni che si riparano all'ombra di alberelli cittadini. Una Piacenza torrida e immobile. Un malato di mente fugge da una clinica, qualcuno muore, altri si fanno domande. Atmosfere vivide, una matassa di informazioni apparentemente inutili e uomini e donne che sono caricature di se stessi. 

In questo scenario si muovono molti dei personaggi conosciuti nel racconto/prologo sperimentale “L’enigma delle scarpe rosse”, fra tutti Jean-Luc Mocha. Attraverso i pensieri, la flemma e l'emotività del protagonista il racconto si dipana confinando a margine della storia le autorità e le consuete indagini di investigatori infallibili.

Un giallo alternativo di circa 40.000 parole.

PREFAZIONE 

C’è un uomo.
Un bell’uomo.
Un bell’uomo alto e vichingo.
Un tipo curioso, bizzarro come i suoi mocassini.
E poi ci sono una strega madrina, una fanciulla dalle gote delicate, il lupo cattivo, un principe azzurro, più simile a un cianotico ranocchio che al sogno romantico di ogni donna, un pezzo di formaggio andato a male, sassi levigati, pioggia inopportuna, grasse matrone d’Oltralpe e chiacchiere. Tante chiacchiere. Pettegolezzi di provincia. Sinuosi, serpeggianti, sussurrati con il sorriso.
Infine, cullata dalla calura estiva, c’è una piccola città scossa da efferati delitti.
Questa è la ricetta che Manuela Paric’ propone ai suoi lettori. Una discesa genuina nella piccineria umana, dove la violenza gioca a rimpiattino mescolandosi, subdola, tra le pigre pieghe grigie di un borgo dormiente. Non chiamatelo giallo, nessun protagonista di questa storia soffre di ittero.
Non definitelo noir, a meno che i temporali non vi oscurino lo schermo del Kindle.
Non bollatelo come thriller, questa non è adrenalina. È puro veleno.
E nessuna fiaba, sia chiaro, bensì una densa bruma che, come un sudario, vi avvolge.
Dunque auguratevi che il signor Mocha indaghi per voi. E qualora vi salvasse la vita, offritegli una tazzina di arabica purissima.

di  Vera Q.


PRIMO CAPITOLO

01. SPAZIO LIBERO 

L’infermiera svoltò l’angolo lasciando solo la luce fredda del giorno a occupare il lungo corridoio. Nella grande sala, un anziano vestito di blu era seduto accanto alla finestra; guardava fuori e muoveva la mano come se stesse dirigendo un’orchestra. Avanti e indietro, giocava con il vento, comandava le foglie. Le labbra rimanevano serrate, senza poesia, senza accenti, e gli occhi, sbiaditi e sudati, erano perduti.
Non sarebbe stato un impiccio.
Un ometto non particolarmente alto, decisamente non bello ma inaspettatamente agile, stava facendo scivolare fuori dalle doghe del vecchio divano un camice bianco. Con le mani abili da prestigiatore lo dispiegò in fretta e, in un unico gesto, se lo mise addosso. Nelle maniche non nascondeva colombe ma due mocassini marroni e un paio di occhialini tondi e seri. Accarezzò la punta delle scarpe e allineò i bottoni chiudendoli tutti con grande cura. Faceva scorrere le dita sull’asola e tirava la stoffa. Era pronto. Si diede un contegno, inspirò tre volte e, frugando tra le pieghe della poltrona, raccolse una cartelletta da diagnosi e una biro nera. Con passo tranquillo, cominciò a guadagnare l’uscita. Si ritrovò davanti alle camere dei reietti e, come spesso accadeva, gli parve di sentire urla, imprecazioni e formule occulte. Andò oltre; era necessario. Incrociò un inserviente intento a scrostare dalla parete qualcosa di organico e marrone. Lo salutò alzando appena le dita della mano che teneva lungo i fianchi, e questi rispose abbassando ancora di più lo sguardo: era evidente che non era una gran giornata per lui, figlio di partigiani, condottiero nello spirito e spalatore di merda nella cruda realtà. “Mendoza” lo chiamavano i dottori per via della pelle ambrata e dura e per quei lunghi baffi neri che gli imbrattavano il volto con garbo.
Doveva ancora attraversare il cortile quando una giovane volontaria lo afferrò per un braccio. Un breve sussulto, una modesta paura, subito abbandonata.
«Quale scala bisogna prendere per raggiungere l’ala est, quella dei pazzi?»
L’ala est, quella dei pazzi, proprio così l’aveva chiamata quella sgraziata donnina. Una magliettina infeltrita, scarpette comode e un sorrisetto di cortesia: erano abbastanza per disgustarlo. Frenò gli istinti, ancora una volta, e indicò a quella piccola cosa la via. Doveva fare in fretta. Avrebbero notato la sua assenza. Avrebbero capito. Il sole bruciava, bruno. Si sentiva ormai addosso il caldo di un’estate da vivere, la bramava. Non poteva correre. Non ora. Non poteva indugiare. Non lo avrebbe fatto. La libertà era a tre panchine, due matti e un gabbiotto da lui. Dribblò con successo una signora con i capelli gialli e le calze viola. Sembrava un missile: sfrecciava roboante nella sua direzione. Le caviglie grosse e le braccia tese, nella bocca il violento desiderio di una sigaretta: una questuante. Una folle panciuta che mendicava tabacco, vendeva storie, spacciava medicine e parlava con i piccioni. Disegnate sui denti macchiati aveva le prove della sofferenza e dei baratti. Come se non bastasse, un sorriso né triste né gentile, un sorriso sproporzionato le spezzava il volto.

Che orrore, pensò. L’ennesimo sporco accattone, un avanzo, un essere goffo da allontanare. Che repulsione! Finalmente inserì la tessera magnetica, firmò il registro, ricambiò il rapido sguardo della guardia che oziava incantata dal televisore e fuggì, leggero.

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