sabato 27 agosto 2016

IL SOGGIORNO- PARTE PRIMA - Vacanze 2016 - diario di viaggio - tappa 2/3

Siamo arrivati. Il mare luccica, come quello delle canzoni. Il cielo è talmente limpido che fa quasi male agli occhi. L’aria è densa di odori buoni e tutti i problemi sembrano nascosti in sacche invisibili alle nostre spalle. Senj è attraversato dai turisti e dai gabbiani. C’è vita ovunque. Ci fermiamo per fare la spesa, l’esperto camperista individua un posticino lato strada dove parcheggiare.
«C’è una catena, secondo me è un passaggio.»
«Naaaaaa…»
«Secondo me è rischioso.» Rincaro.
«Figuriamoci! Me ne sbatto.» Detto questo si fionda nel supermercato Konzum e fa incetta di maionese. Al suo ritorno lo aspetta una multa da 400 Kune. Non basta per spegnergli il sorriso ma è sufficiente per alimentare la mia nausea (12 tubetti di maionese?).
Il campeggio è pieno, il 14 agosto è un giorno difficile: il primo di vacanza per molti, il penultimo per altri. È un giorno sospeso, non ha la magia della vigilia ed è contaminato dalla mestizia di ferragosto. Giornata grigia d’eccellenza, malinconica come la befana, dolorosa come il compleanno dei 40 anni. Oggi è un dì incerto in cui si ha poco tempo per fare cose e troppo per non farle. Noi dobbiamo aggrappare il camper in un pezzettino di terra sotto il monte e aspettare tempi migliori.
L’esperto camperista muove il dinosauro tra la gente in costume, affianca il ristorantino scoppiettando e segue un uomo storto in maglia blu. Questo sorridente e coriaceo si sbraccia tentando di condurci sotto un ponticello, ma noi siamo altissimi, scrolliamo la schiena curva e barriamo avanzando di pochissimo. Il galoppino ride e la faccia gli sparisce tra un milione di rughe, di lui rimane solo un puntino rognoso e scuro.
Ci sistemiamo, la piazzola è brulla e siamo circondati da italiani.
«Vorremmo…» l’esperto camperista sonda l’uomo in blu «in un secondo momento spostarci verso il mare, possiamo?» Dal grumo grinzoso escono scoppiettando poche parole «Quando libero, tu sposta», dice allargando le braccia e completando il tutto con uno scrollone di spalle decisamente accentuato.
La sera ci raggiunge veloce, sembra d’avere oro tutto attorno, le rocce riflettono i raggi rossi dell’ultimo sole e i rumori sono quieti, mi ricordano quelli di mia madre intenta a lavare i piatti mentre mio padre dorme e le scodelle cozzano leggermente e in sottofondo la televisione è solo un brusio. C’è poesia. Ci sono anche moscerini, tanti moscerini, tutti attorno alla nostra lampada. L’esperto camperista ha una soluzione per tutto, si batte la mano sulla testa, ci penso io afferma categorico. Lo vedo frugare in una antina, mi chiedo se abbia intenzione di frustare gli insettini uno a uno, perseguitandoli con un cordino. Srotola invece un nastro marrone di carta moschicida, non la vedevo da almeno vent’anni. La incolla alla plafoniera e la fa scendere fino a 10 centimetri dal pianale. Ci si attacca subito avvolgendosi braccio e collo. È catturato, si dimena per liberarsi e la colla gli tira la pelle lasciando delle spesse tracce giallastre. Forse la carta moschicida non è stata una buona idea. L’esperto camperista è ancora invischiato, il nastro è sfuggito al suo controllo e lo abbraccia. I capelli ne risentono e io rido.

Al mattino come sciacalli andiamo a ispezionare la spiaggia per vedere se si è liberato qualche posto in riva al mare. CI teniamo molto. Lo troviamo. Come è possibile? L’improvvisa botta di culo mi sconcerta, probabilmente è una fortuna che ci siamo meritati. Oramai nulla ci separa dall’acqua. Ci muniamo di coraggio, forza e buona lena e iniziamo a gonfiare l’isola galleggiante 3 metri per 4. Comprende: 2 lettini, area food con borsa frigo, zona salottino con piscinetta, appositi scomparti per sistemare i cocktails e tendalino ricurvo per mantenere sempre una zona in ombra. È una mostruosità. Un monumento molle e opulento. L’esperto camperista ben saldo su due gambette secche e bianche spinge con vigore la pompa e sbuffa. Piega le ginocchia, dilata le guance, asciuga il sudore, bestemmia e osserva la stanza galleggiante rimanere sempre uguale, rasa al suolo. Mi guarda disperato, mormora non finirà mai e sposta il suo malumore oltre l’orizzonte. 7 camere, 7 fottutissime camere deve gonfiare. Sono sette, sono alla prima. Ripete parlando ai suoi piedi dopo trenta minuti di sforzo sotto il sole di mezzogiorno. Attorno a lui si raduna un capannello di turisti curiosi, lo scrutano e lo additano come fanno i vecchi davanti ai cantieri. Ognuno ha una opinione diversa su come svolgere l’arduo mestiere. Altri si avvicinano, danno rapidi consigli, alcuni si complimentano. I più socievoli offrono dell’acqua. Tutti attendono che la meraviglia venga alla luce. Una famiglia di Neocatecumeni di ritorno da un pellegrinaggio a Medjugorje decide di aiutarci a compiere il miracolo, tre dei loro innumerevoli figli danno il cambio all’esperto camperista che immediatamente si accascia su un masso appuntito. Verso le quattro del pomeriggio l’appartamento marino è pronto per essere varato.
«MANCA!», afferma stravolto l’esperto camperista. Rovista nel cassone, prende metri di cordino e punta verso le rocce a valle. Torna dopo un po’ trascinando un pezzo di litorale, una pietra grande come una colonna gotica. Il novello Sisifo ara l’asfalto e gli occhi sono tutti puntati su di lui. «Ecco l’ancora.» Latra. Ora è pago. Imbraga il macigno e valuta la portanza della canoa. Ci starebbe un applauso. Monta in fretta il kajak elaborato, ha predisposto un’asta (avvolta da cordini) con attaccato un motore elettrico a sua volta collegato a una batteria da macchina. Lo stupore della folla si fa rumoroso. Aggancia il pietrone alla canoa, la canoa al gonfiabile, il gonfiabile a mia figlia e prende il largo. Prenderebbe il largo. Inizia a girare in tondo facendo una fatica pazzesca, qualcosa non funziona. Scende, sposta Rebecca, cambia i nodi, da uno schiaffo all’ancora e riparte. Questa volta zigzaga, evita il molo e trova il mare aperto. Finalmente ci siamo. Io li raggiungo a nuoto. Mi sento in vacanza. Una sensazione che dura all’incirca cinque minuti, salire sul maxi materassino è impossibile una volta che si è in acqua. Mi sbuccio, mi vengono i crampi alle mani e sconfitta nuoto senza sosta per quasi 2 ore. Guardo l’orizzonte e se non fosse per la disidratazione mi scenderebbe una lacrima. «Ti metterò dei cordini ai quali aggrapparti», questo mi dice l’esperto camperista. Di lacrime me ne scendono due.
I giorni che seguono sono fatti di anguria, maschera e boccaglio, sole, acqua ghiacciata e sale. Mia figlia sta mutando in una sirena, io in un pesce e l’esperto camperista in una strana creatura rossa e bianca. Ha sbagliato a darsi la protezione solare ed è diventato a pois: un ginocchio rosso e uno no, una spalla bruciata e un braccio bianco, un tettino arancio e uno trasparente. Appena entra in mare ulula. Probabilmente si sta trasformando.
Nel bene e nel male ci conoscono tutti. Rebecca è stata adottata da una coppia prossima alla pensione, quelli del ristorante ci danno gli avanzi per pescare e l’esperto camperista viene chiamato AMMMOREEE dalla cameriera. Glielo abbaia anche da lontano, appena lo incrocia lo abbraccia e i commensali approvano.  Sembrano fatti l’uno per l’altra.
Mia figlia ha trovato due bimbe di Roma con cui giocare, stanno sul bagnasciuga e si divertono a cercare i sassi più grandi. Questa mania per i sassi grandi mi dà da pensare. Io sono seduta sulla seggiola, le gambe a penzoloni nel mare e leggo senza sosta, gustandomi ogni secondo della ritrovata libertà. Talvolta cambia il vento e il profumo della salsedine è sostituito da quello delle grigliate, della legna che brucia e del buon vino. In questo campeggio mangiare è una cosa seria. L’esperto camperista è invece ritto sul molo con la sua canna, stagliato contro il sole non è più un uomo ma solo un’ombra sottile e bruna, viene da pensare che possa svanire dietro una nube e non esserci più. Lo porterà via il temporale.
Alzo le braccia, stendo le dita una a una e faccio entrare tutta la Croazia sotto la mia pelle.
Accade tutto in un attimo: un grido fende l’aria e si propaga svelto appoggiandosi su ogni millimetro del mia corpo, è un strillo pungente. Qualcosa di cattivo, dolore. È Rebecca che si dispera. Esce dall’acqua, ha la gamba tutta rossa, le altre ragazzine piangono. Mi fa male il polso, mi ha preso la schiena, brucia… dicono. «Mi ha preso tutta.» Afferma Rebecca. Dal sedere al ginocchio ha una serie confusa di segni, rami che si intrecciano e si allungano. Un disegno scarlatto che ricorda un albero di ciliegio. Un ciliegio in fiore, in mare. Qualcosa di impossibile. Considero confusa. L’ustione si estende a tratti sul petto e sulle spalle.
«È stata quell’erba spessa sotto la pietra, mamma. Era viva, mamma.»
Un anemone. Il solito gruppetto di persone ci raggiunge. Un uomo invaso dalla sua barba dice all’esperto camperista di pisciare sopra la ferita. Mia figlia lo ammonisce orripilata, più irrigidita da quell’eventualità che dalla sofferenza. Un donnone con i seni più grandi della sua testa ci consiglia di coprirla di sassi, altri di metterci la nivea, di ributtarla in mare o di usare il ghiaccio. Amuchina, ansima una anziana a distanza. Il cuoco, maschio pratico, d’adipe e villoso, ci raggiunge con metà pomodoro e imbratta tutte le piccine. La cameriera starnazza «AMMMOREEE.»
Faccio stendere Rebecca a pancia in giù e valuto i danni. Lei ha gli occhi lucidi ma resiste. È un pessimo momento, il momento perfetto per rispondere a una telefonata di mia madre. È subito panico. «Provocano attacchi cardiaci nei bambini, andate all’ospedale, fatelo, fallo, come sta? Va meglio? Va peggio? L’ospedale ricordati…» Non riesco a immettermi nella conversazione, la chiudo, controllo in internet le informazioni su aggressioni di anemoni e chiedo alla famiglia romana di darci un passaggio al pronto soccorso. Accettano di buon grado, il padre ingolla l’ultimo boccone di risotto agli scampi, infila le ciabatte e ci conduce alla macchina. Il “nonno temporaneo” gli spiega la strada, è preoccupato, si offre di farci da guida con lo scooter, ma il nostro pilota si batte una mano sul petto e lo rassicura. «Ho capito tutto.»
Ci perdiamo. Arrampichiamo sopra salite che avrebbero bisogno di picchetti, rifacciamo rotonde su rotonde e incrociamo più volte un gruppo di autostoppisti che ci maledice. Il guidatore è un uomo basso, tonico ma con il ventre gonfio, gli occhi neri e i capelli radi ma saldi sulla testa. Fa il calzolaio e ha le nocche piccole e rovinate, dice lui. Ripassa mentalmente le indicazioni che gli sono state offerte, adocchia una croce verde e con un certo sollievo ci fa scendere per andare a parcheggiare all’ombra. La giornata è infernale. Mano nella mano, formando una cordata, io, Rebecca e le sue due amiche ci dirigiamo verso l’ingresso dell’ambulatorio. Ci blocca una scritta in grassetto “ORTOPEDINSKJ”. Notiamo che in vetrina, sono disposti ordinatamente plantari e gomitiere. Pare ci sia anche uno sconto temporaneo del 40%. Un affare. È un negozio. Un maledetto negozio. Ci arrendiamo chiediamo aiuto e recuperiamo una pianta della città. Dopo venti minuti siamo di fronte all’ingresso della clinica. Non mi è ben chiaro se sia un ospedale o un ospizio. C’è un silenzio irreale, donnine con il deambulatore sedute sulle panchine e nessun personale medico. Inseguo un uomo con la faccia e la valigetta da dottore. Mi indica distrattamente di tornare indietro. Alle mie spalle c’è un’unica porta. Busso. Niente. Busso ancora. Nemmeno un segno. Riprovo. Nulla. Stiamo per andare via, desidero rintracciare il tipo con la ventiquattrore e fargli dei gestacci, quando la porta si apre. Ne esce una dottoressa che ne ha come minimo ingoiate altre tre. Probabilmente stava digerendo. Parla solo tedesco è alta come l’Everest e priva di lineamenti. In qualche modo riusciamo a portare a termine la visita, riempie mia figlia di antistaminici e mi fa dieci euro di sconto. Ha svuotato tre portafogli e non ha il resto. Bene. La situazione sembra calmarsi. «Una scappata in farmacia e tante coccole.» Rassicuro ingenuamente Rebecca. Inizia a piovere, dal bitume l’aria risorge compatta e ci avvolge facendoci sentire più bassi. Non vedo l’ora di essere in macchina per farmi del male con l’aria condizionata. Corriamo. Il ciabattino ci aspetta in piedi, sorridente, è una brava persona. Siamo tutti euforici, lo scampato pericolo ci ha ridato vigore. Le ragazze giocano con i propri alluci e io mi accomodo sul sedile e mi abbandono al suo morbido abbraccio. Il romano gira la chiave nel cruscotto, clic. Riprova, clic e clic e clic. L’automobile non parte. La batteria è andata. Troppa aria condizionata, lui ne è certo. Chiude la radio, apre le portiere e gira la chiave, clic.
«Aspettiamo un po’, che così la batteria si ricarica.» Si batte la mano sul petto. Ha capito tutto. Mi sta pigliando per i fondelli? Faccio finta di niente, provo ad andare a ritirare qualche soldo a un bancomat che ovviamente non funziona, passeggio e mi manca il fiato. L’umidità è al 100%. Sono passati circa quindici minuti, il padre di famiglia mi chiama e riprova ad avviare la sua berlina. Clic. Clic. Clic. Dannazione. Attaccati a una ventosa ci sono due smartphone, non funzionanti. Il mio è rimasto in carica in camper. Siamo isolati e nella merda. Trascorre un tempo indefinito. Il ciabattino spera che qualcuno si affianchi alla Rover per avviarla con i cavi. «Sono tutti al mare.» Dico io. Clic. Clic. Clic. Bestemmia in romano. Clic. Clic. Clic. Cede, avvista una pompa di benzina e trotta a chiedere aiuto. Un ometto. Me lo immagino in campagna, con gli zoccoli ai piedi a dirigere le greggi e suonare con le sue tozze dita di fauno melodie antiche. Ci vogliono sei tentativi al cardiopalma prima di risuscitare la vettura.
Nel viaggio di ritorno parliamo di fisco e tasse (mai una gioia), lui guida con una mano sola e frena e accelera senza preavviso. La scogliera è a pochi millimetri da noi e così anche le altre macchine. Ho paura. Artiglio i bordi del sedile e controllo incessantemente lo strapiombo. Come ho potuto non accorgermi prima di questa guida flessibile e deforme? Sorpassa un tedesco e rientra immediatamente per inchiodare prima di un camper austriaco. Compenso. Dico a Rebecca di stare seduta composta e conto ogni singolo chilometro che manca al campeggio. Il camper gira in una stradina e abbiamo di nuovo la visuale libera. L’automobile romba, il calzolaio da gas nonostante difronte a noi, poco distante, ci sia un fuoristrada rosso. «Frena!» Esplodo. Lui fa finta di niente. Si batte la mano sul petto. Ha capito tutto.
Mancano solo 1500 metri.
Arriviamo, bacio la terra sotto i piedi e il mare e il parquet del camper e mia figlia.
Ringrazio.
Ringrazio per il tempo perduto, per l’attesa e per le 100 Kune che mi ha prestato in farmacia.
«Domani facciamo una spaghettata?» Mi chiede.
«Sì, mi farebbe piacere.» Rispondo, ed è vero… ma domani, perché domani è un altro giorno. Oggi no.


mercoledì 24 agosto 2016

VIAGGIO DI ANDATA - Vacanze 2016 - diario di viaggio - tappa 1/3

Quest’anno, complice la mancanza di denaro e il bisogno di assoluto riposo, abbiamo deciso di concederci quindici giorni di vacanza in Croazia, nostro primo amore. Niente di avventuroso, niente di culturale, niente di niente verrebbe da dire.  Solo mare, caldo assassino, odore di scogli bagnati e gente abbronzata che vende pesce fresco e albicocche più che mature. “Niente di niente”, verrebbe proprio da dire così, due settimane fatte di giornate molli come elastici usati e di giorni spesi a rimanere immobili, avvolti in respiri profondi e sedotti da quell’idea di ozio e di sospensione di coscienza che permette di riallinearsi con se stessi e di vivere più a lungo. “Niente di niente” appunto, verrebbe da dire senza alcun dubbio, verrebbe, se non fosse per un dettaglio trascurabile ai più, ma fondamentale per noi: partiamo in camper. Ancora una volta andiamo in camper in Croazia: io, mia figlia e l’esperto camperista, colui che due anni orsono ci aveva condotto generoso e claudicante attraverso una delle più disastrose e bizzarre vacanze mai sperimentate. Da allora dice di essere diventato molto più esperto, anzi un vero esperto. Tutta questa esperienza (noto subito) si riflette anche nella quantità di cose che ha deciso di portarsi dietro e con cui ha stipato tutto il mezzo. Io mi domando: questa volta quante batterie da auto avrà comprato? Due anni fa eravamo arrivati a 6, 7 con quella acquistata a un autogrill sulla scia del “perché non si sa mai”. Ora? Avremo abbastanza energia per dirigere il bestione sulla luna?
Come dicevo, questa volta partiamo preparati. Innanzitutto abbiamo il Tank (confidenzialmente chiamato il trolley della merda) e non saremo più costretti a bizzarre manovre clandestine per svuotare serbatoi maleodoranti. È un grande passo avanti, forse l’unico rilevante. Certo, sono percorsa da un brivido freddo al solo pensiero del primo necessario utilizzo, compiuto in scioltezza tra le piazzole e la brava gente. Ci sono molte cose che mi procurano incertezza quest’anno, l’esperto camperista infatti si è munito di canoa, un kajak giallo canarino nuovo di fiamma. Lo ha modificato con un motore elettrico e con parabordi norvegesi attaccati a bacchi di bamboo. È una imbarcazione di fortuna, tenuta insieme da cordini e speranza. Temo che l’esperto camperista si disperderà in mare e sarà salvato dai delfini o, se fortunato, troverà approdo nella terra delle lumache e lì aspetterà sereno l’inverno. All’esperto camperista piacciono le lumache, va detto.

Oggi abbiamo preparato il camper: borse, borsoni, pinne, maschere, forconi, dieci canne da pesca, ami, amini, ametti, un’isola galleggiante grande come il mio salotto, barbecue a campana, biciclette, esche per calamari, pallone, ventilatore, tavolo, sdraio, seggiolini, materassino, lacci, corde e tiranti, ammennicoli e fantasmi... Sono già stanca. Domani mattina, con 18 ore di ritardo sulla tabella di marcia, partiamo.

Venerdì. La giornata è calda, il cielo sgombro e i negozi sono aperti. Abbiamo ritardato la partenza di qualche altra ora… si sa, le spese dell’ultimo minuto. Sandaletti, altri ami, altri cordini, altro. L’esperto camperista è agitato. Farfuglia cose sconnesse, si alza, si siede, guarda fuori dalla finestra e annuisce soddisfatto. Inforca il vecchio monopattino dei Barbapapà di quando mia figlia aveva 3 anni e inizia a circumnavigare l’isola cucina. Il piede taglia 43 esce dal mezzo e sbatte sul pavimento. L’esperto gira veloce e altrettanto rapidamente ripete a bassa voce la lista delle cose fatte e da fare Pane francese, bigattini, pompa… padella, ahhh la padella… tonno…ma no il tonno lo prendiamo là…
Siamo pronti, saliamo sul camper, ci esplode un’anguria. Bestemmiamo e ritardiamo la partenza di un’altra ora: l’anguria e i suoi semini sono ovunque, sarà un funesto presagio?
L’esperto camperista mi ha assicurato che nulla sfuggirà al suo controllo. Tocco ferro, queste affermazioni così perentorie attirano la sfiga più dell’imminente arrivo della pensione. Ho tutto sotto controllo, così ha detto allargando lentamente il braccio e invitandomi a osservare con maggiore cura il lavoro da lui svolto: cordini ovunque, bisce bianche e nere che avvolgono cose e stritolano e stringono e mettono in sicurezza. Metri di cordini che trasformano il camper in una futuristica tana di ragno. Ne ha altre centinaia di metri nel bagagliaio, per le evenienze. Io ho lo sguardo della vedova nera.

Il motore del vecchio Ford s’agita e romba, sembra parlare ai miei reni di donna afflitta da “quel periodo lì”. Chiudo gli occhi, respiro una boccata di aria calda e sorrido, finalmente siamo usciti dal cancello e abbiamo percorso i nostri primi duecento metri verso le meritate vacanze; ce ne aspettano altri sessantamila.  
Alla prima rotonda, affrontata con coraggio e maestria, il frigorifero si apre vomitando tutto il contenuto nel corridoietto; ai semi di anguria incollati al parquet si aggiungono bucce di cipolla e acini d’uva. Sono tentata di schiacciarne uno, tanto per pareggiare. L’esperto camperista accosta, siamo a un chilometro da casa mia, scende dal mezzo, si sgranchisce le gambe e solerte mi aiuta a sistemare il frigorifero, in mano ha un cordino. L’ennesimo.
Ripartiamo. Sono le 14.30, la giornata continua a essere splendida e infuocata. Imbocchiamo la medesima insidiosa rotonda e la porta del camper si spalanca, esplode come una fucilata e sbarbatta e sembra lasciare entrare tutta Piacenza. Dietro di noi un ciclista bestemmia in dialetto. Sbianco, penso al pericolo scampato e chiudo l’uscio. Sarà un lungo viaggio.

Sono le 21.00. Il mondo vibra, i miei neuroni sono annientati uno a uno e io spero che questa esperienza aiuti anche la mia cellulite. Ora siamo sulle montagne slovene, fuori ci sono solo buio e boschi e finalmente c’è fresco.
«Vieni a vedere che bello! Un daino selvatico, laggiù» urla a mia figlia l’esperto camperista. Ha la voce strozzata dall’euforia. Accelera, non vuole farci perdere la magia di quell’incontro fortuito. Teniamo tutti gli occhi sbarrati, la strada sotto di noi scorre furiosa, in meno di un battito il daino si rivela: maestoso, gigante e di cartone. Indica che a 100 metri c’è un buon ristorante. In effetti ho fame.
Decidiamo di mangiare in camper ma, nonostante la lista, la premura, il piano d’azione e i settecento chili di bagaglio… non abbiamo il coltello. Mordo un salamino e buonanotte.