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domenica 27 ottobre 2019

Amici

Non ci vedevamo da più di 15 anni.
Ci incontriamo per caso al parcheggio del supermercato e decidiamo di andare a cena.
Scegliamo un ristorante messicano. Il locale è colorato, odora di spezie, la musica è alta e molte persone ridono.
Noi, nonostante il grande baccano, parliamo. Stiamo bene.
Improvvisamente, tra un burrito e una crema di fagioli, lui si fa serio. Beve un sorso di birra, deglutisce più volte, mi fissa. Occhi negli occhi.
- Ti voglio confessare una cosa, è ancora un segreto. Una cosa che ho scoperto recentemente e che mi ha cambiato la vita.
Temo che voglia vendermi saponi, pentolame, assicurazioni e sono pronta ad affrontare con garbo un soliloquio sulla magnificenza del sistema piramidale.
- La rivelo a te perché credo tu possa capirmi. Da quando l'ho scoperto il mio modo di gestire le relazioni, soprattutto con le donne, è cambiato. Finalmente mi sento me stesso.
"È omosessuale." Tiro un sospiro di solievo. 
- Ho scoperto di essere...
I ritmi etnici impazzano, un gruppo di amici alza i calici e brinda, il locale sembra diventato più piccolo e più chiassoso. Le stoviglie tintinnano, i camerieri corrono e qualcuno si alza per ballare.
- Ho scoperto di essere DOTATO.
Lo guardo.
Mi guarda.
Lo guardo.
Mi guarda e annuisce.
"Ha scoperto di essere dotato?"
- Come? DOTATO? - starnazzo, inghiottendo tre pezzi di carne.
- Ho scoperto di essere D-O-T-A-T-O - ripete solenne.
- Ah, buon per te. Che dire...
- Già.
- E hai scoperto di essere DOTATO a quasi 40 anni? - chiedo con sincero interesse.
- D-O-T-A-T-O
- Sì, ho capito, ma a quasi 40 anni? - sposto la bottiglia di acqua e allungo il collo.
- Ho scoperto di essere D-O-T-A-T-O - gli sfugge un sorriso piacione
- D-O-T-A-T-O, ma ora? come? 
- D-O-T-A-T-O - scandisce, spostando l'ingombrante baricentro verso di me.
"Non troppo, uomo." Penso. "Quel baricentro è pericoloso!"
Raccolgo tutte le energie, recupero fiato, stiro l'ugola e urlo... nell'esatto istante in cui la musica svanisce.
- E VA BENE! SEI SUPER DOTATO! DOTATOOOO. 
Tutto si ferma. Silenzio. Ci stanno fissando. Qualcuno è uscito velocemente dai cessi per darci una guardatina.
Lui ridacchia, si pavoneggia, e mi sussurra - ADOTTATO, ho scoperto di essere, ADOTTATO.

Probabilmente in un B.movie...morivo.

Inverno, notte.
Nel cielo nessuna stella. 
Un vento lieve muove le foglie dei platani e un unico lampione illumina la via come fosse la luna. 
Io sono a letto, stanca. Pensieri morbidi mi stanno portando verso l'oblio. I gatti dormono acciambellati sulla trapunta, il cellulare è spento e tutto è pace. 
BUMBUMBUM 
Un forte rumore interrompe la quiete. 
Ho gli occhi ancora chiusi, il cuore che trema e una intensa sensazione di disagio. "Sarà stato un incubo" penso, come quando si sogna di cadere e si inarca la schiena e ci si sente scimmie e cadaveri contemporaneamente. Decido di non fare niente e provare ad addormentarmi.
BUMBUMBUM 
Improvviso, forte, crudele, il rumore spezza l'aria, ancora. 
I gatti si svegliano e saltano scomposti, elastici e magici. Io scatto in piedi con meno fermezza, accendo la luce e corro verso il salotto. Il baccano non è ancora cessato. Temo sia entrato un animale. "Devo salvarlo". Arrivo in salotto, il rumore smette. Tutto tace. Non capisco. Cerco ovunque la presenza di un intruso, piccolo o grande. Controllo la porta di casa, tremo al pensiero che sia aperta. Impallidisco alla sola idea di dover lottare o supplicare per sopravvivere. Apro tutte le stanze, guardo sotto i tavoli, ricontrollo la porta, scuoto le spalle, faccio un mezzo sorriso e torno a letto. Appoggio la testa sul cuscino e BUMBUMBUM... ancora il rumore. 
Agisco in fretta, al buio. Striscio lungo il corridoio, mi sento nella giungla, in guerra, il pavimento è freddo, quasi umido. Ora, più forte del rumore, nelle orecchie ho i battiti del mio cuore. La bocca è asciutta, ogni senso è allertato. Sono quasi arrivata, esito dietro lo stipite. Il rumore aumenta, si fa più caotico come se qualcuno stesse rompendo della carta, sparpagliando ciottoli, grattando cuscini. Coraggio. Ci vuole coraggio. 
Avanzo. 
Mi allungo. 
Devo vedere. 
Ecco. Il rumore smette. 
Silenzio. 
Accendo la luce, tutto è normale. Ogni cosa è come l'avevo lasciata, anche la notte. Mi sento scema e malata... torno a letto correndo, quasi inseguita, osservata, in pericolo. Mi copro la testa con la coperta e aspetto. Niente. Ma io attendo, fingo di dormire per un tempo lunghissimo. Nulla. La mente inizia a svuotarsi, il corpo si fa molle, le prime immagini confuse di un sogno che sta per nascere mi trascinano via ed eccolo... BUMBUMBUM, il rumore, ancora. 
Questa volta mi rannicchio e lascio che qualsiasi cosa sia si sfoghi. Porta chiusa, gatti nel letto, mazza sul comodino.

martedì 13 agosto 2019

ITALIA BOLLENTE, CERVELLO ASSENTE.



Il mio compagno Jason è nato alle Hawaii da madre cinese e padre giapponese. Ha vissuto in quell'isola a due passi da alberi giganti, spiaggia, mare, delfini, orche, squali... per 40 anni. Poi ha avuto la sfortuna di trovare me: ha agitato la ciabatta e salutato Honolulu, messo in valigia cappotto e pezzi della sua vita ed è atterrato a Malpensa in un freddo pomeriggio di novembre. Un trauma. Ora vive a due passi da pioppi arsi, fiume Po, temutissime zanzare padane, nebbia, inverni. Con l'arrivo dell'estate pensava che le sue giornate avrebbero cambiato direzione: vestiti leggeri, natura rigogliosa, granita e passeggiate lunghe. Illuso. Alle Hawaii è sempre estate, ma un'estate diversa dalla nostra: il caldo infernale è mitigato dalla brezza e i 40 gradi non si raggiungono praticamente mai. Ho scoperto che noi italiani siamo resistenti: abbiamo la pelle forte come il cuoio, le tempie cromate, i calcagni costruiti sui cingoli. A noi l'estate umida, bollente e bastarda ci fa incazzare, molto, moltissimo, ma la gestiamo. Ce la andiamo anche a cercare. L'hawaiano no, non ce la fa. A volte lo trovo sdraiato sul pavimento, immobile, fluido e lunghissimo come un gatto. C'è da dire che quando abbandona la sicurezza dell'amico condizionatore, Piacenza gli riserva delle succulente sorprese. Regali che fatica a dimenticare.

IERI

Io e Jason camminiamo in centro città, il sole è alto, giallo e cattivo. Lui suda, ovunque. Suda talmente tanto che ha i piedi bagnati, lisci come il marmo e non riesce a trattenerli nelle infradito. Gli scivola l'alluce, gli sfugge il tallone, bestemmia in americano e poi perde il mignolo e slitta e slitta ancora. Fuck and fuck. Per questo, come l'ultima delle crocerossine, gli stringo la mano più forte del solito e lo aiuto ad arrancare. È come portare a spasso un aquilone di carne e ossa, un uomo bidimensionale in balia della tormenta. Ridacchio e penso a quanto siamo buffi. Due amanti teneri e sciocchi: io che lo trattengo, lui che non fugge via.  Tutto romantico, certo, come no. La fregatura è dietro l'angolo, o meglio, a portata di panchina. Dopo tutto quello sdrucciolare e quel tira e molla, appoggiare le terga all'ombra ci dovrebbe restituire un minimo di dignità. Dopo circa 37 secondi di meritato riposo, un uomo pingue, arrotolato in una tenuta sportiva lucida e nera si siede accanto a noi. Schiocca la lingua, si asciuga la fronte con un polsino in spugna, giallissimo, uno di quelli che andavano di moda negli anni '80 e si allarga soddisfatto l'elastico dei pantaloni. Ha anche un berretto calato fino a metà fronte, un anello nero e i denti nuovi. Mi viene da chiamarlo Caronte.

- Io non mi permetto eh, ma mi perdoni eh, dovevate fare il contrario, sa? - dice.
- Come scusi? - rispondo, distratta.
- Il contrario. Dovevate fare il contrario! - insiste.
- Ahhh - fingo di capire e mi sposto un pochino. Quel tanto che basta da farlo notare.
Forse puzzo, è un misogino, le donne prosperose lo confondono. Mi controllo l'alito e l'ascella senza farmi notare. Nulla. Con una mossa rapida faccio un check anche delle mutande che, come mi ha insegnato nonna, non si sa mai. Perfette.
- è che sa, certo sa, lei sa, sono gli uomini che vanno con le cinesi. Che fanno quelle robe lì, quelle famiglie arcobaleno, colorate, miste. Non le nostre donne. È un peccato, sa? - Porta l'occhio sul seno, bramoso, - certo che sa, lei sa, così come siete... proprio non vi si può guardare.-
Mi fissa compiaciuto e ride e sorride e schiocca la lingua, di nuovo, come se fossimo compagni di merenda.
- Come scusi? - domando ancora una volta, incredula. 
Jason non comprende l'italiano, mi appoggia una mano sulla coscia e fa un gesto di assenso all'omuncolo maledetto. Un saluto cordiale, una tempistica sciagurata. Caronte sbava.
- Va bene quando nella coppia è la donna quella gialla, ma così, che bisogno c'è, non andiamo bene noi italiani? Fa un po' strano, sa? - si toglie il cappellino, non più di 40 capelli attraversano un cranio perfettamente sferico.
- Ma non mi permetto eh, io no! - continua - Io non sono come quelli che vi odiano a voi stranieri, io dalle cinesine ci vado, contribuisco, sono brave ragazze, sa? E a quelli davanti al supermercato qualche centesimo glielo lascio pure. Ma gli zingari no. Sia chiaro. A lavorare devono andare, mica a rubare a noi gente per bene!- 
Sputazza una rapida sequenza di altri luoghi comuni e slogan mortiferi, quindi si accarezza il testone per lucidare quattro peli fuori posto. 
Vanesio, ignorante, stronzo, e altri epiteti facili da affibbiare scorrono nella mia mente senza una direzione precisa e utile. Troppo semplice. Affilo dunque le armi della mia indignazione, cerco parole taglienti ma istruttive per controbattere a tanta dabbenaggine, assumo una postura dignitosissima e apro bocca.
- Mi ascolti bene... - non faccio in tempo a finire che un piccione obeso, una cicogna, mi batte sul tempo e gli getta una cagata da 200 grammi dritta dritta al centro della fronte. Ahhhh la Provvidenza! In un attimo un fluido colloso e bianchiccio gli cola sul naso e punta dritto dritto verso la bocca. Merda alla merda. L'essere si agita, mugugna, gesticolando mi chiede se ho un fazzolettino. 
Lo ho. 
Glielo mostro.
Riesco a dire - non per lei, sa? - mi inchino, offro il braccetto all'hawaiano e scivolo via.

Ho fatto come il piccione. Un po' me ne rammarico, un po' no. 

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Sì, è una storia vera. Purtroppo.

giovedì 6 marzo 2014

Rubrica: Storie di famiglia - Vera correva veloce.

Vera correva veloce. Stringeva il pacchetto ancora caldo. Non poteva permettersi d'essere fermata. Muoveva le gambe una dopo l'altra rischiando di far inciampare i piedi sui piedi. I tacchi quel giorno non erano stati una buona idea, ma ogni tanto aveva bisogno di sentirsi più alta, più bella, ancora donna. La guerra le aveva tolto tutto. Ora vivevano in quindici in due stanze, si lavavano in mare e mangiavano le patate con la buccia. La notte i sogni erano interrotti dalle sirene e la morte era sempre nell'aria. Si sudava. L'estate era arrivata calda e bella, nonostante gli aerei lasciassero scie in cielo e nessuno affollasse le spiagge. L'estate era lì, esplosa. A portata di pelle.
La infastidiva notare come molte cose nella loro sostanza fossero rimaste le stesse. Erano solo scalfite. La guerra era qualcosa di provvisorio e al contempo definitivo. L'idea che niente sarebbe stato più lo stesso e che nulla sarebbe cambiato la disorientava. Probabilmente il conflitto accelerava i processi, li rendeva più evidenti, segnava le tacche come un orologio troppo rumoroso. 

Quando donna Polona le aveva messo il saccoccio tra le mani, l'aveva sentita respirare a fondo, come se avesse fatto il primo respiro dopo mesi.
Donna Polona amava Pave con tutta se stessa, s'erano scelti: lei altissima, le spalle larghe e la gonna nera fino alle caviglie; lui calvo, con gli occhi blu e le mani da pianista. Avevano comprato una casetta in pietra vicino al porto e da subito provato ad avere un erede. Poi Pave fu mandato sulla torretta e lì ucciso. Donna Polona aveva passato un mese intero al buio, accovacciata sul letto, con la faccia schiacciata sul cuscino di Pave. Trenta giorni lunghissimi in cui il dolore aveva nutrito la rabbia e la rabbia creato pensieri assassini. Donna Polona voleva vendetta, solo dopo quella avrebbe ricominciato a vivere. Così aveva detto. E anche Tata Lenka voleva vendicare il figlio e tutti rivolevano Pave. 

Vera correva veloce. Stringeva il pacchetto ancora caldo. Pensava a Pave, suo fratello.
Erano passati sei mesi da quando lo avevano seppellito. Gli avevano messo un completo marrone scuro, più corto di dieci centimetri e sistemato i baffi con la brillantina. A Vera quei baffi facevano ridere. Ricordava e rideva. La prima volta che Pave aveva provato a farseli crescere era stato per la recita di quinta elementare. Doveva fare Zorro. Aveva rubato la lametta di suo padre e si era tagliato tutto. Pave non aveva mai rinunciato ai suoi baffi e se li era portati nella bara. 

- E' morto.
- Lo so.
- Capisco.
- Ho visto chi l'ha ucciso.

Donna Polona aveva baciato il ragazzo delle consegne e poi era andata a piangere, sola. Aveva affilato un coltello e s'era truccata gli occhi scuri con una matita scura.  Se l'era presa comoda: quarantotto ore intere, sempre sveglia. Poi aveva chiamato Vera.
Le aveva dato il pacchetto e ora Vera correva veloce.
Tata Lenka l'aspettava sulla soglia, gli zii contavano i rintocchi della campana e il cane era sdraiato sullo zerbino.
La vendetta aveva unito tutti, calda, sanguigna, rigorosa.
Avrebbero bevuto alla salute di Pave. Mezzo bicchiere di vino a testa, le loro scorte.

- Per te fratello.
Disse ad alta voce Vera appoggiando il cartoccio sul tavolo. Era umido e la carta da pacco s'era colorata di rosso.
- Prosit
In tredici alzarono i calici
- E' bello grande.
Concluse Tata Lenka stringendo il cuore del nemico tra le mani.




Racconto liberamente ispirato a una storia di famiglia. I nomi sono di fantasia.

di Manuela Paric'

foto di Francesca Woodman

martedì 30 luglio 2013

Rubrica: "Storie di famiglia" - La signora Paplova



La signora Darina Paplova era seduta in cucina. Qualcosa non le tornava. Aveva speso 30 centesimi per il latte, 65 per il formaggio, 20 per una bella grossa micca di pane e si era concessa, come ogni venerdì, una copia della rivista "Giardinaggio e amore". 145 centesimi in tutto. Non si stava sbagliando. Eppure, in tasca, le era rimasta solo una sgualcita banconota da un dollaro. Dove era finito il resto? Controllò nuovamente il piccolo borsello in pelle, aveva due fermi in ottone durissimi e per questo veniva aperto solo quando era necessario. Niente. Vuoto. I polpastrelli dei pollici le bruciavano ma più ancora la infastidiva non venire a capo della faccenda. Erano periodi difficili, si pativa la fame e non si aveva mai abbastanza, non era proprio il caso di perdere del denaro. Al piano superiore sentì battere il bastone di sua suocera. Toc Toc Toc tre volte, pausa, altre tre volte, la stava chiamando. Amanda Chiarimbotto aveva 78 anni, i denti gialli e il carattere di una tigre malese. Aveva seppellito due mariti, cinque figli e otto schnauzer. Comandava ancora. Sdraiata nel letto, avvolta da una leggerissima coperta in seta aspettava la nuora per interrogarla sull'andamento della famiglia. 
- Quindi? -
La Signora Paplova sapeva bene che mentire non sarebbe stata una mossa vincente. Le guance le si velarono di rosso e cercando di mantenere un tono autoritario rispose alla vecchia.
- Ho fatto la spesa, sistemato l'orto, lucidato i vassoi che si stavano annerendo. Dovremmo chiamare l'idraulico, il rubinetto del bagno funziona a singhiozzo. - 
Aveva parlato senza prendere fiato, nemmeno una volta.
- Mmm mmm - 
Madama Amanda fece scorrere la lingua sopra entrambe le labbra, sistemò il cuscino in modo da mettersi più dritta e alzò il tono della voce fulminando con entrambi gli occhietti grigi la poveretta.
- C'è dell'altro? - 
- Non trovo 63 centesimi. Ho controllato ovunque. Credevo di averli appoggiati nel vaso all'ingresso. Mi sarò sbagliata ma ... -
- Non preoccuparti. - 
Con un gesto della mano l'anziana la congedò.
Darina era sempre più confusa, era abituata alle stranezze della megera ma non si sarebbe mai aspettata tanta pacatezza: per quanto riguardava i risparmi Amanda Chiarimbotto era più rigida di una banca Svizzera.
Poco male. Si accese una sigaretta e sprofondò nella poltrona del salotto. L'indomani sarebbe tornata al negozio.
I giorni passavano, le giornate a poco a poco diventavano sempre più lunghe e l'umore della Signora Paplova più instabile. Qualcuno la stava derubando. Era come se un entità malvagia le stesse nascondendo monetine su monetine. Con piglio da investigatrice iniziò a stilare una lista delle possibili cause. La prima, quella che le pareva più conveniente, era anche la più facile da verificare. La verità è evidente. A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire: la via da seguire sarebbe stata quella del rasoio di Occam. Iniziò quindi a sospettare che la vecchia signora fosse diventata cleptomane. Un lunedì, con la scusa di rifarle la stanza si mise a frugare in ogni dove ma, non senza un certo disappunto, constatò che  non c'era nemmeno un soldino, nemmeno per sbaglio. Evidentemente non era stata lei, le fu subito chiaro. Come se non bastasse, quella stessa sera, perché i pensieri – si sa - non vengono mai da soli, una brutta febbre si impadronì di Amanda Chiarimbotto. Una febbre profonda, indistruttibile e malvagia. La pelle della donna sudava ogni liquido presente in corpo, la nausea vinceva sulla fame e crampi muscolari alle gambe aumentavano ogni afflizione. Gli impacchi non avevano alcun effetto.
Il dottore arrivò solo nel tardo pomeriggio di giovedì. Darina sospettava che molti anziani fossero affetti dal brutto male che aveva colto sua suocera, quel ritardo era comunque un'ingiustizia.
- Salve. -
- Quali sono i sintomi? - 
Il medico si muoveva con sufficienza, alleggeriva le mani con l'aria, sollevava il polso della paziente con due dita e evitava di sedersi.
-Ha la febbre alta, l'alito cattivo e delira. -
- Deliri? Che dice? -
- Non saprei dottore, solo poche parole pronunciate a fil di voce. -
Madama Chiarimbotto era inverdita: sembrava essere invecchiata di altri mille anni. Una mummia egizia fatta e finita, ecco cosa ricordava alla signora Paplova. Per quanto crudele fosse quell'esile vecchina, per Darina era tutta la sua famiglia. Aveva lasciato Mosca da più di vent'anni e sua madre da sempre. In quel momento, stordita dall'inevitabile che  sembrava avverarsi, lei era sinceramente preoccupata.
- Abbiamo un blocco. -, sentenziò il dottore interrompendo i pensieri della Signora Paplova.
- Un blocco? -
- Sì, e dei più consistenti, oserei dire. - 
Spostò gli occhiali sulla punta del naso, un gesto che in gioventù aveva certamente provato spesso davanti allo specchio.
- Qui. -
L'omino indicava serio il basso ventre della malata.
- Quando ha defecato l'ultima volta? -
- Ohhh proprio non lo so, non le conto, dovrei? - 
- Non sa? Non conta? Dovrebbe farlo, certo che dovrebbe. -
Scuoteva l'indice con estremo disappunto.
- Questo è grave, molto grave! - sospirava - Si ricordi: il benessere intestinale è tutto per le persone di una certa età!!! -
- Me ne ricorderò. – 
La nuora al solo sentir parlare di argomenti così intimi e sporchi diventava di sasso e perdeva il buon uso della parola. Avrebbe voluto essere ovunque, anche in guerra. E  credere che fino a qualche ora prima il suo problema più grande era una manciata di spiccioli spariti. 
Il medico salutò e categorico impose le sue condizioni: somministrare alla minuta Amanda Chiarimbotto  un beverone di dimensioni inimmaginabili e un clistere proporzionato.
- Santo cielo! - 
Non disse altro la Signora Paplova.
Armata di pazienza e anche di una discreta dose di coraggio sollevò le fini vesti della suocera. Chiuse gli occhi e attese l'urlo di dolore.
Silenzio.
Un rumorino sordo.
La cannula non passava: Madama Amanda era troppo contratta. Quella tortura non avrebbe avuto seguito, ma il supplizio dell’anziana era solo rimandato a mani più esperte.
Avvolta dalle note di Bach, Darina rimuginava sugli ultimi avvenimenti.
Altri 25 centesimi spariti. Forse stava impazzendo? Era da molto che non si dedicava a se stessa. Non si concedeva un’uscita, frivola, con le poche amiche che aveva saputo coltivare negli anni, da almeno dieci mesi. Quell'odore stantio e quell'atmosfera bigia le stavano corrompendo il cervello, fino a confonderla.
Che l'indomita vedova Chiarimbotto fosse giunta al capolinea? Che ne sarebbe stato di lei? Non voleva pensarci. Ma la testolina della Signora Paplova non la smetteva di creare scenari disastrosi e di ricorrere alla più folle fantasia per dare una spiegazione razionale a quello che stava accadendo.
"Un malvivente, un circense, un losco figuro si sta nascondendo nella nostra casa", schioccò il pollice e il medio, certa di aver trovato la soluzione. “Un’ ipotesi intelligente, perfetta.” Aveva trovato una spiegazione ai furti, ai fastidiosi rumorini notturni e anche all'inguaribile malattia della suocera. La vecchia era stata avvelenata. "Povera donna". Anche le frasi sconnesse che esanime questa borbottava si ammantavano di una solida verità. Il sonno le avrebbe portato consiglio e con una gioia inadeguata Darina si addormentò.
Così come era entrato, il litro di tisana pareva non essere uscito dal corpicino esausto di Amanda. La febbre non diminuiva e il battito del cuore era lo spettro di un suono un tempo vigile e possente.
- E' nascosto qui-, sussurrava la millenaria. Il collo le si irrigidiva e l'illusione di una fissità antica, tipica delle statue, la invadeva. - I soldi... -, continuava - I soldi...al sicuro ... i soldi ... -
Già! Stavano finendo anche quelli. Senza le indicazioni della suocera la Signora Paplova non poteva adempiere ai suoi compiti e ben presto sarebbero morte di stenti. Amanda nascondeva i suoi risparmi, nessuno sapeva dove. Era una casa dei primi dell'800, enorme, il luogo ideale per segretare qualsiasi cosa. Un tesoro o un ladro. O entrambi.
- Sembra peggiorare, dottore. -
- Capisco. -
- Crede che riuscirà a guarirla? -
Il medico alzò le spalle.
- Non sono Dio. -
- Pensa che, nel caso, le rotelle le torneranno a posto? -
- Come già detto, non sono Dio. -
L'aria, rarefatta, si condensava sui vetri e il sole, lama sbiadita, rendeva lo scenario solenne.
- I soldi, i soldi, i soldi. - 
Sapeva dire solo quello Madama Amanda.
- Mi dica cara, dove sono? - 
La signora Paplova lo aveva domandato con tenerezza, nel disperato tentativo di salvare almeno la sua esistenza.
- Al sicuro...i soldi... -
"Maledetta", avrebbe voluto strozzarla, tirchia e dispotica anche nella morte!
- Dovrò operare manualmente. -
Al dottore non interessavano gli screzi delle due donne, lui doveva agire e risolvere la questione.
- Come? - 
- Manualmente, nel retto. -
Il guanto dell'esperto era già oliato.
Il candido gridolino di Darina, non lo fermò. Né quello della paziente.
“Inguardabile, una violazione, una profanazione, quasi un sacrilegio. Al fine siamo animali e non angeli", sentenziò tra sé e sé la Signora Paplova.
- Ho il sospetto - imperturbabile - che sua suocera abbia una grave patologia psichiatrica. -
"Lo aveva dedotto dalle feci? forse i medici, dopotutto, sono veramente simili a Dio".
- Vede -, mostrando qualche monetina - sua suocera si crede un salvadanaio! -
Darina non si scompose. Ormai.
- Ma mi dica dottore...mi dica...è possibile fare un prelievo? -


Liberamente ispirato alla storia della mia bisnonna che sul finir della vita era convinta di esser un salvadanaio. Santa donna.

di Manuela Paric'