mercoledì 9 aprile 2014

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti 21

Titolo di cronaca: "Assassino riconosciuto dai passanti."

Questo il mini racconto ispirato: Il naso.

Nel dettaglio, entra nel dettaglio. Ricorda, seziona, smembra. La luce al neon è fastidiosa, troppo bianca. Si appoggia priva di spessore sulla scrivania e sui muri e li nasconde. Cela tutto, ma non me. Mi illumina il naso: è grosso. Ho sempre odiato il mio naso, mi precedeva e mi identificava lasciando in disparte ogni altra qualità. "Arriva l'elefante", dicevano. "Come farà a baciare una donna", ridacchiavano. "Lo avrà grosso anche nelle mutande?", spettegolavano. 
Vedo l'ombra del mio naso sul tavolo in formica, è lunghissima, mi ricorda una spada. Potrei girarmi di scatto, muovere il collo selvaggiamente e affettare l'avvocato, per poi trafiggerlo e infilzarlo come un polletto su uno spiedo. Ho un naso aggressivo. 
- Non sono stato io.
Barrisco.
- L'hanno riconosciuta, non credo...possano esserci dubbi, nel suo caso.
L'agente tiene la testa bassa incapace di fissarmi negli occhi. 
Mostro, pensa.
Ed ecco che il mio naso mi ha fregato ancora una volta. Sono un assassino. Mi aggiro nella notte con un mantello da Cyrano e predico odio e amore e uccido per colpa dell'uno e dell'altro. Questo credono.
Ero un bravo bambino: non dissentivo, non urlavo e trattenevo la pipì quando mia madre mi portava in giro di negozio in negozio il sabato pomeriggio. Già da piccolo avevo coscienza della mia diversità e tentavo di pareggiare il conto con le buone azioni. Peccato che le vecchiette ritirassero la loro mano rugosa quando mi guardavano bene in faccia e che gli insegnati non capissero la differenza tra una battuta sagace e una presa per i fondelli. Colpa della mia voce screziata, ruvida, nasale. 
I miei genitori non mi facevano mai rispondere al telefono e metà degli amici di famiglia pensavano fossi muto, i rimanenti mi credevano demente. Tra un raffreddore, una umiliazione e un pianto sono cresciuto e ho trovato il mio posto nel mondo. L'unico posto, probabilmente. Sono una testa da test: annuso i campioni di profumi, deodoranti, creme, lettiere ed esprimo un parere insindacabile. L'odore del mondo dipende dalle mie narici. L'aroma dell'umanità segue i miei vizi. Sono soddisfatto. 
Ho un naso importante, responsabile.
Certo a volte è un impiccio avere un arnese tanto sensibile, soprattutto in città. Ci sono afrori che me lo violentano, olezzi che mi entrano nel cervello e mi cambiano l'umore.
- Si concentri. 
Esplode il poliziotto.
- Era o non era nei pressi di Vicolo Frogia ieri notte verso le ore 2.45?
- Non ricordo.
- Non ricorda? È malato? Ha sbattuto la testa, forse?
- In un certo senso signore, non rammento, lo giuro. È colpa del naso.
Me lo tocco, mi rassicura.
- Ci sono fragranze che mi stordiscono e mi annebbiano la mente, insomma...svengo.
- Capisco
Il commissario si alza, mi dà le spalle. È un uomo alto e grasso e pende a destra. Ha gli abiti stropicciati e un tanfo disgustoso di colonia e sudore. C'è caldo sotto questa bianchissima luce al neon.
- Non dica altro.
Mi sussurra l'avvocato prima d'uscire dalla stanza.
Io rimango seduto. Goccioline rotonde navigano sulla mia fronte e cercano la libertà scivolando veloci sulle mie appendici e schiantandosi a terra.
Quasi mi ipnotizzano.
Dove ero ieri notte? Camminavo, mi sembra. Lo faccio a volte, inseguo le scie dei miei ragionamenti come un segugio. Un marciapiedi, una lampada rossa, delle gambe di donna, un bambino che ride. Nient'altro ritorna alla mia memoria. Niente di sanguinolento o feroce.
L'essenza della morte è pungente e corposa, sconvolge i miei sensi e li immobilizza. Un odore dolciastro che mi dà immediatamente la nausea. Non posso essere un assassino, ne morirei.
- Le piacciono i ragazzini?
- Non capisco la domanda.
Il poliziotto l'ha tirata fuori dal cilindro e me l'ha sbattuta in faccia aggressiva e soffice come un coniglio mannaro.
- Frequenta uomini più giovani, molto più giovani? 
- Ho degli amici, solo amici.
- Ahhhh, ha degli "amici".
Il commissario spalanca le manone sul tavolo, appoggiandosi. Fa tremolare i baffi e mi osserva dall'alto in basso. Ride di me.
- E cosa fa con questi amici?
Ho fiuto per le trappole, non so cosa rispondere.
- Quello che fanno tutti: usciamo, mangiamo, beviamo, andiamo alle feste.
- O festini? Le piace travestirsi?
Decido di rimanere in silenzio. Respiro affannosamente e la saletta diventa ancora più calda.
Nel dettaglio, entra nel dettaglio. Ricorda, seziona, smembra. Rammenta. 
L'aria densa mi invade le narici e mi rosola il cervello. Abbrustolisce frammenti di vissuto e parti delle mie esperienze ritornano.
Ero con Piero nel vicolo. Piero è bellissimo e mi fa divertire. A lui piace il mio naso, ogni tanto glielo faccio toccare. "Non sembra vero.", dice. Avevamo bevuto ma non abbastanza per perderci. Piero aveva in mano una corda e una sacca. 
"A cosa ti servono", chiesi.
"Vedrai."
Ero eccitato, mi piace giocare. 
Non così però.
Piero mi conosce bene. Sa che le lunghe attese frenano il mio imbarazzo e alimentano il mio piacere.
All'improvviso siamo stati avvolti dal profumo di cannella e zucchero filato. Buonissimo. Un giovanotto sui 13 anni era uscito da una porticina laterale. Teneva un pallone sotto il braccio, aveva labbra grandi e qualche briciola sulle guance. "Torta di mele", l'avevo riconosciuta. Io lo salutai, Piero fece il resto. 
Schiacciato contro il muro, con il pantaloni abbassati e le lacrime il ragazzino implorava Piero, chiedeva clemenza. Il mio amico era un fascio di muscoli e desiderio. L'odore di piscio e di paura mi teneva distante. Volevo salvarli entrambi. Lo volevo. Ne sono convinto. Il piccolo allungava le braccia verso di me, quasi a volersi aggrappare a qualcosa, al mio naso suppongo. Non feci nulla se non respirare a grandi bocconi, appoggiarmi a un palo e perdere i sensi. Mi sono svegliato nel mio letto con la faccia incastrata nel cuscino e un sapore metallico in bocca. Ora sono qua.
- Aveva appena fatto merenda.
Il commissario mi ascolta, ha la decenza di non porre altre domande.
- Non ero io a spaventarlo, non era questo.
Indico la mia evidente sporgenza.
- Come si chiamava?
- A n d r e a.
Scandisce il nome lettera per lettera, dà un peso a quel nome. Il commissario è bravo nel suo lavoro.
- Andrea.
Ripeto.
- Piero lo avete preso?
- Non c'è nessun Piero.
È quasi una domanda. 
Non c'è nessun Piero.
-C'è! È mio amico, è stato lui quella sera, non io.
- Pensaci bene.
- L'ho fatto. Dovete trovare Piero, è alto come me, potremmo essere fratelli...se lui non fosse esageratamente perfetto. Ha un profilo francese. 
- Pensaci bene.
Ripete il commissario, sgrana il rosario delle sue convinzioni e io non capisco dove voglia portarmi.
La luce al neon sfarfalla e tutto sembra pulsare.
L'ombra del mio naso s'assottiglia, si piega e si riduce in una allucinazione perversa. La osservo e mi sento già distante. 
Piero mi somiglia, è pettinato come me, mi capisce e mi precede. È di famiglia.
- Forse potreste assumerlo come cane, per l'olfatto. È un bravo cucciolo.
Suggerisce Piero al poliziotto.
Forse potrei, forse lo faranno. Piero è bravo a convincere le persone.


di Manuela Paric'

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