mercoledì 22 maggio 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #7 di Paolo Marcotti - Dedicato a Carlo Monni -


#7
(Dedicato a Carlo Monni, e a tutti i maestri che lasciano un vuoto che non sappiamo riempire, perché non abbiamo imparato abbastanza da loro)
Arrivo in stazione in autobus dopo un cambiamento di programma e oltrepasso sul marciapiede tutti i vagoni già affollati per salire direttamente sul primo che offre qualche spiraglio di comodità. Lui è già lì, seduto compostissimo come un bambino emozionato e ben educato in gita, catechizzato dalla mamma e dalla maestra con qualche decina di superflui “fai il bravo!”. Ma, come per ogni bambino in gita che si rispetti, la compostezza lascia piccoli varchi che tradiscono un frenetico tumulto. L'apparenza da scolaretto infiocchettato per l’occasione non può dissimulare il brivido del discolo apprendista di avventure.
Ma non è un bambino, tutt’altro. Un attempato signore, per certa letteratura. Un appartenente alla terza età, per certi altri amanti della correttezza. Un vecchino, a casa nostra, dove chiamare le cose col loro nome è segno di affetto.
Un vecchino d’altri tempi: andato dal barbiere per l’occasione, è rasato alla perfezione intorno ai baffi bianchi; capelli pure bianchi, ben impomatati. Giacca e camicia entrambe a quadri, di una foggia che non si trova più neanche al mercato di paese, e meno che mai nei negozi con pretese vintage. Appuntati al bavero, in forma di spilla, i ricordi ben vivi di una militanza giovanile. Dal taschino spunta una penna finto-oro che sì, concede qualcosa agli stereotipi, ma può sempre servire. I mocassini poi rimettono a fuoco immagini d’infanzia, uguali a quelli di certi amici del nonno, quando lo venivano a trovare. E… non notata prima, la cartolina è completata da un autentico tesoro: sulla cappelliera c’è una valigia. Di cartone. Chiusa con lo spago. Incredibile. Sono sul set di un film. Sono andato indietro nel tempo e sono salito su un treno degli anni cinquanta. Sto sognando. Passo in rassegna tutte le spiegazioni possibili per tanta meraviglia, finché, con mia sorpresa ancora maggiore, il vecchino estrae un cellulare.
È un brusco ritorno al contemporaneo, ma non è deludente. Il vecchino infatti lo approccia con incertezza tenerissima. Armeggia un po’, non sembra raggiungere l’obiettivo, lo ripone con l’aria di chi rimanda senza pensieri una questione.
Dal finestrino entra un sole irruente e fastidioso. Ci sarebbe la tenda ma Aldo non la tira. Rimane fermo lì, a farsi cuocere la faccia, proprio come fosse una cosa che non può più permettersi di perdere, e un pizzico di malinconia nell’aria mi suggerisce che forse sì, è proprio così. 
Poi dobbiamo scendere, e cambiare treno per arrivare a destinazione. Fortunatamente anche Aldo viene a F., e quando arriva il nostro secondo treno posso ammirarlo accostarsi per primo alla porta del vagone ma invitare tutti a salire prima di lui, nonostante ci sia il pienone e lui abbia ben diritto di reclamare un posto a sedere. Non lo fa per un eccesso di umiltà o di educazione, o per dimostrare qualcosa. Lo fa così, perché non è nemmeno previsto che si possa fare in un altro modo. 
Aldo ha lasciato la terra natale tanti anni fa, per andare a cercare lavoro, fortuna e famiglia dove sembravano esserci prospettive migliori. È andata bene, non benissimo, ma ad Aldo già sembra di aver raccolto anche troppo, più fortuna di quella che meritava, più di quanto gli bastava e gli basta per vivere sereno, con la fronte alta, con quegli occhi che possono guardare tutti dritto per dritto. Aldo non ha conti in sospeso, non ha mai rimandato un bicchiere di vino o una canzone se la compagnia era buona, non è mai andato a casa presto se c’era bisogno che dicesse la sua o che ascoltasse quella degli altri. 
Ora torna, perché, con uno dei pochi amici rimasti, dovranno andarne a salutare un altro, per l’ultima volta. Quello più giovane di loro. Quello che, quando erano giovanotti, avevano aiutato e protetto, perché veniva da una famiglia sgangherata e certi malintenzionati gli avevano messo gli occhi e qualche volta anche le mani addosso. Quello che poi era cresciuto con gli stessi valori, le stesse idee sulla vita, che aveva fatto più strada di loro ma non aveva dimenticato, e non si era mai allontanato da quella linea che avevano disegnato insieme da ragazzi. L’unica fregatura gliel’aveva tirata adesso, salutando in anticipo, quasi scappando.
Aldo tira di nuovo fuori il cellulare e stavolta chiama senza esitazioni l’amico. “Felice?” … “Sì, sono io, sto arrivando, un quarto d’ora e sono lì” … “eh, lo so anch’io che sarebbe stato meglio se fossi tornato per un altro motivo” … “Senti, Felice, lo sai cosa ti dico? Che questa faccenda che se ne vanno sempre i migliori, che gli eroi muoiono giovani e belli, ha un po’ rotto i coglioni. Va bene, è una bella idea, è romantica e nobile e tutto quello che vuoi… Però, anche se arrivassero a cent’anni, non ci sarebbe mica niente di male, no? Morissero anche un po’ di stronzi, ogni tanto”.

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