martedì 4 febbraio 2014

Altri racconti di altri: Pianeta Tibet di Serena Zonca.

Pianeta Tibet

Kalden Gyatsho marciava. Ogni tanto riusciva ancora a sollevarsi. A prendere fiato. E a lanciare lo sguardo oltre una china. Ma sempre più spesso la fatica lo schiacciava. Dolorosamente. Al suolo. Seguiva le impronte da giorni. E ancora non riusciva ad avvistare. La sagoma scura del cingolato. Le pause erano sempre più frequenti. Il panico della staticità nel riposo. Le grandi montagne lo irridevano. Con i lievi cappucci di nubi. Trascinandosi, soffocava. Accelerò. La bocca spalancata. Per raccogliere sulla lingua. Un soffio di velocità.

Il missile comparve a una svolta del sentiero, due giorni dopo la morte di Kalden, e non era affatto rassicurante. La gente del villaggio si spostava al suo passaggio, recitando mantra agli dei-montagna. Un inizio di sassaiola fu silenziosamente bloccato dal vecchio Chung Riwoche, preoccupato che l’ordigno potesse esplodere. 
“Il momento è arrivato dunque”, pensarono all’unisono i settantadue abitanti del villaggio. Guardavano perplessi i solchi dei cingoli sulla mulattiera e ricordavano i giorni dell’inizio dell’esperimento, dopo i tragici eventi della rivoluzione cinese, nell’anno ferro-scimmia. Da allora nessuno aveva più turbato l’aria tersa e vibrante della valle nascosta. I primi sintomi di levitazione spontanea e di comunicazione senza parole non erano riusciti a scalfire anime che secoli di buddismo tantrico avevano abituato a ben altri miracoli. Il fenomeno si affermò con tale delicatezza, e procurò tanti vantaggi alla popolazione di Rinchen Po, isolata e priva di qualsiasi aiuto esterno, che fu presto catalogato come qualcosa di piacevolmente inevitabile e immediatamente accettato.

Forse, dopo, i fondi si erano esauriti, persi nei meandri dei palazzi di Pechino. Forse i progettisti erano morti portandosi nella tomba le formule dell’unico prototipo anti-G funzionante. O magari l’inaccessibilità della zona scelta per l’esperimento aveva annientato gli stessi ricercatori, sfiancandoli con i suoi deserti senza monsone, l’aria rarefatta che cuoce i polmoni e le temperature inverosimili del suo inverno.
Ma i cinque generatori antigravitazionali piantati attorno alla valle nascosta avevano continuato a funzionare, incustoditi e abbandonati all’autonomia infinita delle loro pile atomiche.
Fino al giorno in cui gli uomini al governo, risvegliati da un’improvvisa ondata turistica, avevano temuto che il segreto gelosamente ignorato per quasi trent'anni finisse in mani nemiche. Tutti avevano sottoscritto senza esitare, come unica soluzione, la cancellazione del progetto e la terminazione di quanto vi fosse collegato.

I preparativi furono lunghi e laboriosi. Per giorni e giorni la presenza incombente della testata, ancorata alle guglie innevate sopra i 5000 metri rischiò quasi di paralizzare la vita di Rinchen Po. Poche furono le uscite con le mandrie di yak dalle esili zampe. Quasi nessuno si levava sopra i tetti a meditare. In privato, però, si officiavano sacrifici, bruciando incenso che agitava nell’aria file di nuove bandiere di preghiera. E Tashi Ombar, dio della grandine, cavaliere rosso dal triplice occhio, ascoltò le suppliche del suo popolo e allontanò il pericolo dell’immobilità, più temibile della morte, dalle loro vite.
I due graduati si guardarono perplessi sulla soglia della tenda militare. L’attendente indicava ancora, con il dito puntato e una mano alla visiera, l'enorme sigaro incastonato nella torretta di lancio che fluttuava sopra le loro teste, alla deriva. L’influenza silenziosa dei generatori aveva lentamente sottratto peso alla sua materia letale. Poche centinaia di metri e il vento gli fece prendere una direzione decisa, schiantandolo, con un boato che squassò il cuore stesso del mondo, contro uno spuntone di roccia, proprio sopra l’accampamento cinese. Della tenda e della scorta al cingolato, che aveva ucciso la sentinella Kalden lungo il sentiero, non rimasero che pochi brandelli ondeggianti sull’altopiano.

di Serena Zonca





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