martedì 23 aprile 2013

Altri racconti di altri: Il vicino sul treno #4 di Paolo Marcotti


Il tempo, nel senso meteorologico ma non solo, è indefinito, a metà. Io ho fatto tardi e prendo un treno estraneo alla regolarità del mio pendolarismo.
Di solito non lo faccio, ma forse proprio l'orario e il clima inconsueti mi fanno guardare attorno in una involontaria, ma non troppo, ricerca di figure che mi accendano curiosità, colori, melodie.
Non ne trovo, si capisce. Perché non sono cose a cui si comanda.
Mi siedo allora dove lo spazio libero è massimo, per distendere le gambe, i pensieri, le letture, le fantasie.
Ho vagamente fotografato l'uomo seduto nell'unica posizione che si propone agevole alla mia vista.
L'ho già battezzato come scarsamente interessante e chiudo gli occhi, desiderando un sonno che sembra realmente sul punto di prendermi.
Però la fotografia sfocata di Gabriele rimane in qualche modo lì, tra l'occhio e la palpebra. Reclama.
E' vero, aspetto ordinario. Poco sotto la cinquantina, occhiali scuri, vestiti e scarpe non espliciti ma che ricordano qualcosa di militare.
E, nonostante gli occhiali scuri, una percepibile espressione arcigna, un cipiglio. O, più precisamente, un'incazzatura. Ma non irosa, non disgustata. Determinata, ecco.
Mi vedo costretto a riaprire gli occhi per acquisire ulteriori elementi.
Gabriele si fruga l'interno della giacca freneticamente, quasi avesse le pulci, e ne cava dei foglietti e un cellulare.
I foglietti, scritti a penna, contengono diversi numeri di telefono, e, non posso fare a meno di notarlo, tutti di persone di nome Mario.
Gabriele manda ad ognuno di questi numeri un messaggio. Questo messaggio: "Mario, non importa. Non chiedere niente, resta sereno. Di alcune cose non vuole parlare nemmeno Dio".
Gabriele si tradisce perché non ha pulito alla perfezione le scarpe. Quegli scarponi neri, quasi anfibi, conservano qualche traccia di fango, di un fango atavico, tante volte meticolosamente pulito ma che inevitabilmente mostra la sua storia. Il verde prevalente di cui Gabriele è vestito suggerisce che è fango di bosco, un bosco in cui lui si muove sicuro, svelto e familiare, quasi come un animale di montagna. Familiare. E' la parola esatta. Perché è il bosco che Gabriele ha preparato, verrebbe quasi da dire costruito, per sua figlia. Sua figlia, con cui è rimasto solo, è una creatura speciale. Dovremmo chiamarla folletto, se solo credessimo davvero alla loro esistenza. E un folletto ha bisogno del bosco, per vivere.
Gabriele non la ama come si ama una figlia, perché Gabriele non sa amare "come". La ama. E amarla è stato procurarsi un terreno. E amarla è fare di quel terreno un bosco, con le sue mani, con le sue forze.
Gabriele, con quell'apparenza che è tutto il contrario, ha anche lui qualcosa del folletto. E mentre siamo troppo concentrati nelle nostre indispensabili attività, ci sfila il telefono o l'agenda. Scorre veloce la rubrica e trascrive tutti i contatti di nome Mario. 
Ogni Mario, un messaggio.
Ogni messaggio, un nuovo albero.
Il bosco si popola e sua figlia è felice. E anche Gabriele, dopo che ha piantato un nuovo albero. Niente più incazzatura, sorride.
Non vi chiedete perché proprio Mario. Non vi chiedete perché il messaggio.
Di alcune cose non vuole parlare nemmeno Dio.

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